Un
personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve
storia dell’autobomba è esemplare
per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di
una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki,
ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un
anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel
1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo
stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è
morte”. C’è tutta la Breve
storia dell’autobomba in quelle
ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale
di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui
diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui
“conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La
puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte
dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda
nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un
romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo
efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il
sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è
indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici
dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles
Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il
contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta
all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e
tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non
distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve
storia dell’autobomba è evidente
che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e
l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive
con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno
“l’impressione di essere guidati simultaneamente da una
disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a
tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione
preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi
dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo
darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore
di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le
esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft
targets, porteranno sicuramente a
scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico,
funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati
storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la
riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima
di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una
nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata
sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la
meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi
bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve
storia dell’autobomba rivela “una
corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza
orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è,
nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta
speranza per il genere umano.
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