Le
nuove Motel Chronicles di Sam Shepard cominciano con una testa
mozzata che collega il Messico all’Afghanistan, il presente al
passato. La testa non può chiedere altro al viandante se non di
essere un buon samaritano e di accompagnarla a un luogo solitario,
verso un lago sulle colline, dove possa trovare “una pace senza
ambizioni, progetti, scopi politici. Una pace pura”. Nel lungo e
laborioso tragitto il Diario di lavorazione raccoglie altri
ricordi, frammenti di incontri, istantanee, Chet Baker, Stanley
Turrentine, Eric Dolphy, l’acconciatura di Woody Guthrie e quella
di Lyle Lovett, nonché, inevitabile, Jack Kerouac. In Peccato
originale Sam Shepard cita la vecchia amica Patti Smith, poi
mette a confronto i paesaggi di Ansel Adams e i volti di Robert
Frank, racconta Howlin’ Wolf e le note di copertina degli album
della Chess, il salvataggio di Fats Domino a New Orleans nei giorni
di Katrina, la morte di Hank Williams e quella di Casey Jones e
ancora Hud il selvaggio di Larry McMurtry e in Giardinaggio
notturno richiama (forse in modo involontario) i R.E.M., ed è
naturale dove tutto è “un suono, un ritmo, oppure qualcos’altro
ancora. Una musica. Certe volte arriva il silenzio assoluto, e allora
vado in visibilio. E’ proprio così che accade: te ne stai lì in
un campo blu e all’improvviso ogni cosa si ferma. Un miracolo. Poi
riprende tutto. A turbinare”. Parafrasando il commento sul menù di
una delle infinite soste lungo questa o quella highway il Diario
di lavorazione “nell’insieme funziona, anche se può sembrare
un’accozzaglia di sapori”. Questa scrittura tersa, mutilata,
precisa, di silenzi e di solitudini, di luci e di ombre, di alcol e
di cenere, di gente che perde la testa (e non soltanto in senso
figurato), americana fino al midollo. Piena di cinema, non soltanto
per i continui riferimenti e le assidue citazioni, ma proprio
nell’inquadratura complessiva, capace di delineare la storia con
pochissime indicazioni, come una sceneggiatura minimalista. Nella
sostanza, con uno sguardo ravvicinato, è più lirica e profonda
perché Diario di lavorazione tende a celebrare e a sublimare
le immagini e le descrizioni, il dentro e il fuori rivelandosi nel
contempo uno dei libri più intimi di Sam Shepard. Il giorni di
viaggio si susseguono senza soluzione di continuità perché “abbiamo
davanti la stessa fosca prospettiva, lo stesso naufragio”, ma la
percezione è alterata dai disastri dell’ecologia americana. la
vita sul confine dove “paura e rispetto” sono diventati sinonimi.
Quando Sam Shepard ammette che “la strada non è un film”, il
disincanto è palpabile e se magari “un barlume di speranza” c’è,
da qualche parte, o c’era, una qualche volta, la convinzione è che
ormai “la speranza è per i politicanti”. Il disorientamento di
una love story consumata e dimenticata, il silenzio disperato di una
stanza d’albergo, le attese vane accanto al telefono e/o alla
bottiglia, dozzine di dialoghi che finiscono in un deserto portano
Sam Shepard a confessare: “Non ho proprio idea di come funzionino
le cose per gli altri. Anzi, se proprio te lo devo dire, non ho idea
di come funzionino per me. Brancolo nel buio”. Non di meno, rimane
inalterata, la sua vocazione a bordeggiare ai margini, a collezionare
i ritratti di un outsider dopo l’altro, a considerare tutta
un’umanità di loser, vagabondi, fuggitivi, disperati. Più che mai
in Diario di lavorazione dove Sam Shepard dichiara, non senza
una certa sincerità: “Sono un fanatico della decadenza. Che mi
affascina il modo in cui le cose si disintegrano, appaiono e
scompaiono. Il modo in cui qualcosa di molto prospero e promettente
diventa triste e scoraggiante. Il modo in cui le persone tengono duro
nel bel mezzo di tanta distruzione, senza pensarci due volte. Il
mondo in cui la gente va avanti perché non sa cos’altro fare”.
Resta la consolazione nell’ascoltare Le canzoni lontane dei
matti o la voce e la chitarra di Guy Clark che ci fa sentire
sulla strada giusta anche in mezzo alla bufera, anche se i bordi
dell’autostrada sono in fiamme perché “solo una cosa è certa,
non si ferma mai nulla” e come dice un vecchio adagio riportato da
Sam Shepard “la nostra dimora è il pellegrinaggio, in una parola
la nostra casa non è da nessuna parte”. Outside is America.
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