Anche nella
versione storyteller, William Faulkner rimane unico nel manipolare
gli elementi narrativi per adeguarli alle fiabe e ai misteri da
raccontare ai bambini. La praticità con cui allinea e incastra le
azioni, gli ambienti, le circostanze, i personaggi rimane inalterata
nonostante la specificità del pubblico, dei temi e del loro
svolgimento. I fantasmi di Rowan Oak
raccoglie alcuni racconti che William Faulkner alias Pappy era solito
declamare ai nipoti e anche nell’assemblare i piccoli dettagli che
costituiscono la forma classica di tutte le leggende asseconda uno
stile prezioso e limpido. Naturale, poi, che ci sia una netta
distinzione e le due diverse identità in cui viene declinato Il
segugio portano in profondità alla
differenza tra scrivere e raccontare una storia. L’elemento
fantastico è minimo, legato alla sensibilità animale che Il
segugio mostra davanti alla perdita del suo
padrone, assassinato per un odio atavico alimentato dalla povertà,
dalla miseria e dalla fatica. Lui, come il suo carnefice, sapeva “che
il raccolto non sarebbe stato migliore dell’anno prima, ma era
tutto ciò che aveva”. Le parole sono misuratissime, intagliate una
scheggia alla volta, soltanto che in una versione i due protagonisti
non hanno nome e nell’altra si chiamano Houston e Cotton, in una lo
sceriffo arriva alla fine e nell’altra è coinvolto fin
dall’inizio, anche se in entrambe assume il ruolo di deus ex
machina che risolve e conclude la triste vicenda dei due contadini.
Da studiare, perché Il segugio
è esemplare nel rivelare le semplificazioni della forma orale
rispetto alle possibilità della scrittura. L’elemento fantastico è
invece determinante con Il lupo mannaro,
una breve storia che rispecchia le regole, i dettami e le atmosfere
che il titolo lascia intuire. L’elenco comprende la luna piena, le
nuvole nel vento della notte, gli animali e gli esseri umani con la
gola squarciata, il buio all’improvviso, ma poi William Faulkner ci
mette sempre un elemento in più, un particolare minuscolo, eppure
distintivo. Basta cercarlo. Tra I fantasmi di
Rowan Oak spicca quello di Judith Sheegog,
che vive un momento d’incanto, in una sera di stelle, accanto a un
soldato nordista, prigioniero nella sua casa, lì a Rowan Oak. Quando
lui fugge, per non tornare più, lei disperata cerca “il benedetto
sollievo della morte” ed è destinata a diventare il fantasma
(bianco) che appare nelle tenebre di Halloween illuminate dalle luci
dentro le zucche intagliate, quelle notti in cui gli adulti non sono
più affidabili dei bambini. L’utilizzo dei luoghi comuni è
funzionale alla destinazione dei racconti e del resto William
Faulkner li sottolinea con una certa disinvoltura, così come la
dimensione onirica in L’albero dei desideri.
Un racconto più fiabesco e fantastico, con
tutta la leggerezza propria di Pappy, ma che poi si riallaccia ai
ricorsi storici di Judith
con un punta di inevitabile fatalismo quando dice “tanto le guerre
non cambiano mai” oppure, e ancora, con la voce di uno dei
protagonisti, che “la prossima volta che quelli ne fanno una mi sa
proprio che non ci vado”.
Invece Rowan Oak è là, è facile
ritornarci, “l’edificio non si vede dalla strada, ma spicca in
fondo ad essa: bianco, grande e bello. Sembra che sia lì da sempre”,
e a sentire queste storie deve essere proprio così.
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