C’è
qualcosa di grandioso nei racconti di Lovecraft che esula
dall’aspetto fantastico e dal misterioso fascino che emanano. E’
quella capacità, persino il coraggio, di interpretare “mondi
estranei ai nostri”, con la consapevolezza, come ricordava il
fenomenale incipit di Il richiamo di Cthulhu,
che “la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della
mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo
su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito
e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano”. Antichi
riti, architetture segrete, creature e civiltà imperscrutabili,
forze incontrollabili, il terrore dell’ignoranza e le tentazioni
innate del “nostro senso dell’avventura”: è sempre la
composizione di tutti questi (parecchi) elementi a rendere densa e
complessa la scrittura di Lovecraft, a celebrare “gli orrori che
potevano celarsi nelle profondità sconosciute”. Non c’è mai un
solo strato: leggende, ballate, tradizioni tramandate lungo interi
albero genealogici, valutazioni scientifiche, credenze popolari, una
serie di sedimenti s’incastrano uno nell’altro fino a generare la
miscela micidiale dei racconti, la cui detonazione “combina
l’effetto dell’imprevisto con quello dell’incredibile”. La
costruzione del fantastico passa per l’assemblaggio di una concreta
quantità di realtà e se I topi nel muro
sono l’espressione più completa di questo processo, l’elemento
razionale che è sempre un tratto aggiuntivo, un indizio che
Lovercraft distribuisce con accurata parsimonia, trova,
nell’ammoniaca per la refrigerazione in Aria
fredda, un’esemplare sublimazione. Non è
mai determinante, non è mai fondamentale, ma è una componente
sempre presente, non con la necessità di giustificare il fantastico,
che non ha bisogno di essere giustificato, ma con il bisogno di
reggere il racconto, di offrire un punto di riferimento perché “le
anomalie suscitano sempre avversione, sfiducia e paura”. Come
scrive Lovecraft, proprio in Aria fredda,
“è sbagliato credere che l’orrore si manifesti inevitabilmente
al buio, nel silenzio o in solitudine. Io l’ho provato nello
splendore del pomeriggio, tra i suoni assordanti di una metropoli e
nell’affollatissimo ambiente di una modesta pensione; al mio
fianco, per giunta, c’erano due uomini robusti e una prosaica
padrona di casa”. La percezione delle mostruosità viene esaltata
con Il colore venuto dallo spazio,
secondo Stephen King “l’unico racconto di fantascienza” scritto
da Lovecraft, dove diventa esplicito che l’intima natura di quegli
esseri e di quelle realtà abominevoli “non è qualcosa che si
veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi, qualcosa che si
immagina soltanto”. Il colore venuto dallo
spazio si spinge anche più in là perché
Lovercraft lo definisce “una delle grigie, contorte, fragili
mostruosità che non cessano di turbare i miei sogni”, suggerendo
una collocazione inconscia, se non proprio onirica, delle origini dei
suoi racconti. Va da sé che è l’ambiente notturno quello in cui i
principi della tenebre dettano le loro tremende leggi ed è proprio
lì che la recensione di Stephen King è in qualche modo quella
definitiva: “Le sue storie erano davvero potenti. Le più riuscite
ci fanno percepire la dimensione dell’universo in cui siamo
sospesi, e suggeriscono l’esistenza di forze misteriose che
potrebbero distruggere tutti se soltanto grugnissero nel sonno”. Se
fosse possibile, bisognerebbe leggere Nyarlathotep
(un capolavoro di poesia gotica) con gli occhi chiusi, per capire che
“la città era sempre la stessa, che era ancora un posto per i
vivi”. D’altra parte, come indica L’estraneo,
è certo che nell’ombra si nasconde “un mondo sotterraneo di
mistero infinito e orribili suggestioni”. Una di queste, Dagon,
la creatura marina che emerge dagli abissi della mente non meno che
dalle correnti marine, potrebbe benissimo essere una sorta di
fantasma di Atlantide. Gli inquietanti segnali che ancora
distribuisce sono destinati a quelli che Lovercraft chiama “i resti
dell’umanità insignificante, logorata dalle guerre”. La
prospettiva è fondamentale ed è la fonte principale dell’equilibrio
dei racconti perché come scrive H. P. Lovercraft in Il
modello di Pickman: “Io invoco spiriti
umani, spettri di esseri che hanno raggiunto un alto livello di
organizzazione, creature complesse in grado di contemplare l’inferno
e capirne l’essenza”. Non è soltanto l’orrore in sé. E’
l’immaginazione necessaria a concepirlo e a tradurlo, come ha
capito benissimo Stephen King: “Ci vuole un atto intellettuale
sofisticato e robusto per credere, anche per poco tempo a
Nyarlathotep, al cieco
senza volto, a Colui che sussurrava nelle
tenebre”. L’imponderabile si può leggere
soltanto così.
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