Sam (diminutivo
di Samantha) Hughes è in viaggio verso Washington, dove vuole trovare il
nome del padre, Dwayne, inciso sul granito nero e lucido del Vietnam
Veterans Memorial. Con lei, su una macchina che ha visto tempi
migliori, viaggiano Mamaw, la nonna ed Emmett, un reduce inseguito
dai fantasmi di chi è rimasto Laggiù.
Siamo nel 1984, quasi dieci anni dopo la la fine della guerra, e
dalla radio, dopo Marvin Gaye e i Talking Heads, arriva
Glory Days,
perché è il momento di Born
In The U.S.A. e,
come dice Sam, “in America accade tutto qui, sulle strade”.
Capita anche di scoprire che non c'è posto dove correre, non c'è
posto dove andare, nemmeno dove nascondersi da “una sensazione di
estraneità” perché Laggiù
è, sì, sempre sottinteso il Vietnam, ma è anche Hopewell,
Kentucky, una cittadina spersa in mezzo al nulla. Il contrasto con il
drammatico lascito della guerra e il piccolo mondo antico
dell'heartland, con la convinzione che quell'America è bella e buona
(non l'altra), è l'inestricabile groviglio di sentimenti ed emozioni
in cui è impigliata Sam. Nonostante il nome, a Hopewell nessuno ha
risposte da darle. La vita silenziosa e monotona nella provincia non
è sufficiente, non ha i mezzi per rispondere a quelle enormità. La
speranza è solo che il tempo lenisca o cancelli le ferite. Non sarà
così perché i reduci non hanno dove andare, vagano come fantasmi,
trascinandosi dietro storie e ricordi (compreso l'incubo di essere
stati contaminati dai defolianti usati dall'esercito americano, o
dalla paura tout court) e insieme la voglia di dimenticarli e il
bisogno di conservarli, perché quelli Laggiù
erano giorni che hanno segnato “una linea di demarcazione, vita o
morte”. Un altro veterano, Pete Simms, lo spiega molto bene a Sam:
“E' una questione di intensità quello che abbiamo attraversato
insieme”. Ciò non toglie che le sofferenze siano insopportabili e
la sensazione che Emmett confessa a Sam è che “non puoi
permetterti di restare in città quando pensi a quello che è
successo”. Non ha tutti i torti: il viaggio a Washington, che è il
segmento iniziale e quello finale di Laggiù,
è il tentativo di fuggire dall'immobilità di Hopewell, dove
la connessione con il resto del mondo, e volendo la sua
comprensione, avviene attraverso la televisione, che è il vero
contrappunto della vita reale. L'avvento di MTV, soprattutto nello
stile surreale dei primi videoclip (dove succedeva di tutto) genera
una certa confusione, se non altro una sorta di miraggio. “Questi
video di MTV sono vere stronzate”, scrive Bobbie Ann Mason. Ancora
adesso, soltanto che in quello di Dancing In The Dark,
citato a più riprese, la mano tesa da Bruce Springsteen in mezzo al
pubblico coincide con la mano che aspetta Sam per riuscire a
conoscere il padre, che è morto Laggiù,
in Vietnam, e per comprendere anche se stessa. Sullo schermo, la
parvenza dell'immagine, mostra tutta la sua evanescenza, la sua
fallibilità. Laggiù
è un riflesso proprio come Born In The U.S.A.,
e in quanto tale, facile a contraddirsi e a sfumare nel dettaglio,
luccicante in superficie, malinconico e spettrale una volta spente le
luci, ed è così che anche Bobbie Ann Mason si ritrova Laggiù,
a ballare nel buio.
domenica 25 ottobre 2015
giovedì 22 ottobre 2015
Bill Flanagan
Lo
diceva Chuck Berry, che ha cominciato tutto: “Una canzone va
scritta facendo molta attenzione alla storia che vi si racconta”.
Con la stessa sensibilità Bill Flanagan ha avvicinato
l'imponderabile e soggettiva arte del songwriting in Scritto
nell'anima attraverso il confronto con un'eccellente selezione di
autori, molti dei quali hanno scritto alcune delle pagine più
importanti della storia dal blues al rock'n'roll. L'ambito è proprio
quello e la distinzione è obbligatoria perché c'è canzone e
canzone: l'argomento di Scritto nell'anima è il songwriting
nella sua particolare applicazione al rock'n'roll che Bill Flanagan
si premura di ricordare come “uno stile così magnificamente
immorale: agguanta al volo le buone idee, le prova in dodici modi
diversi e conserva qualsiasi cosa vada bene”e qualcosa che “offre
ai suoi figli la cittadinanza in una comunità internazionale dove
tutto è collegato dalle esperienze condivise, dalle coincidenze, e
da una misteriosa politica di ammissione”. Il processo di
identificazione e di condivisione che è Scritto nell'anima
del rock'n'roll rimane sempre sotterraneo e nascosto rispetto ai
songwriter che se ne appropriano ed è uno dei motivi per cui Bill
Flanagan tiene a precisare che “un'altra parte di questo fascino
deriva dalla voce, dall'opinione che la musica fornisce ai solitari,
quando questi si ritrovano da soli, con le luci spente e il
giradischi acceso. In questi momenti così privati si può sentire,
chiaro come il fischio di un treno, l'invito a partire per andarsi a
cercare un posto migliore. La musica non promette che si si arriverà
ma fa capire che varrà la pena di intraprendere il viaggio”. Le
canzoni servono proprio a fornire le tappe, gli indirizzi, le mete
perché come suggerisce il songwriter numero uno (nessun dubbio)
ovvero Bob Dylan “le canzoni non sono che pensieri fatti per
fermare il tempo per un istante. Le canzoni devono essere abbastanza
epiche da dare l'illusione di fermare il tempo, usando un solo
pensiero. Sentire una canzone è sentire il pensiero di qualcuno, non
importa che cosa vi sia descritto. Se assisti a qualcosa e pensi che
sia abbastanza importante da descriverlo, questo è già un tuo
pensiero. E siccome pensi solo una cosa alla volta, nel momento in
cui poi la tiri fuori riveli quello che sei”. Il dialogo tra Bill
Flanagan e i suoi ospiti è sempre diretto e corretto. Bill Flanagan
sa come scansare i voli pindarici degli artisti e conosce tutti i
trucchi per lisciare l'ego delle rock'n'roll star quel tanto che
basta perché lascino socchiusa una porta. Non sempre funziona: tra
domande e risposte, il ritmo delle interviste è sempre sincopato,
qualcuno è più elusivo, altri sono più aperti, ognuno ha la sua
particolare percezione dato che la psicologia delle canzoni e dei
loro autori viaggia in parallelo. Secondo Joni Mitchell, “quando la
gente ascolta una canzone questa entra nella loro vita e le parole
sono simboli. Questi simboli sono instabili”. Tom Waits sembra
risponderle dall'altro lato (quello sbagliato) della strada e
sostiene che “è tutto là fuori. Se hai bisogno di parole, basta
guardare fuori dalla finestra”. Per Keith Richards il meccanismo è
più spontaneo, quasi magico nel suo manifestarsi: “Credo che le
canzoni siano intorno a noi. E' solo questione di essere ricettivi e
pronti a raccoglierle. Perché la maggior parte delle canzoni si
scrivono da sole una volta che hai qualcosa da cui cominciare. Una
volta iniziato, è un processo irreversibile. Un processo
irreversibile. Un processo che tu puoi aiutare e seguire, ma non puoi
riuscire a controllare la canzone. Nonostante ci sia tu, seduto lì,
con un pezzo di carta e la chitarra”. Questo è quello Scritto
nell'anima, poi c'è il corpo del rock'n'roll e nessun altro, se
non Mick Jagger poteva precisarlo: “Forse sono semplicemente fuori
moda ma ho anche bisogno che la musica mi faccia ballare. Per me è
tutta qui la faccenda. Ballare, capisci? Se della musica non mi fa
venire voglia di balzare in piedi, allora vuol dire che c'è qualcosa
che non va”. Facile immaginare Bill Flanagan mentre annuisce,
quella storia funziona proprio così.
domenica 11 ottobre 2015
David James Poissant
Con
un equilibrio raro ed elegante, David James Poissant riesce a tenere
insieme il fantastico e l'ironia, il surreale e l'onirico con il
dramma ordinario della realtà, il più delle volte ancorata alla sua
essenza blue collar. Il tono e il ritmo, che sono comuni a tutti i
sedici racconti, portano sempre alla sorpresa, un colpo a effetto,
una variazione improvvisa sul tema. Capita con Il
bambino che brilla,
un frammento di due pagine con la delicatezza di un sogno,
con Ko, che
sarebbe una short story degna di Raymond Carver, se non fosse che il
bizzarro quadro d'insieme lo fa sembrare piuttosto una canzone di Tom
Waits, con 100%
cotone dove
la scena di una rapina a mano armata (anzi, due) si sovrappone a
quella di un suicidio mancato e di un omicidio compiuto per un errore
di comprensione e con l'acido trip di Il
lupo. Nell'immediato, il
paragone più calzante agli esordi di David James Poissant è con
George Saunders
ma la sua voce è già abbastanza autorevole nel
vivisezionare l'incomunicabilità, il vero tema che popola Il
paradiso degli animali e
sviluppato su
diversi piani. Rocambolesco nel tratteggiare le psicosi che
spingono La
fine di Aaron oppure
rispettoso e graffiante, in Il
rimborso,
piccola istantanea di una società pervasa dall'ansia della
competitività che poi è un altro modo per declinare l'aggressività.
Famiglie spezzate, confuse, travolte dall'eventualità,
dall'imprevisto, dall'ignoranza, dalla violenza, dalla morte, dalla
vita: non
sembra casuale che in Nudisti,
un'elaborata riflessione sul perdono attraversa da una tensione quasi
insopportabile, la conclusione veda tutti i protagonisti spogliati e
(in fondo) indifesi. I racconti
hanno una serie di agganci, aderenze e connessioni, il più delle
volte impercettibili o, almeno in apparenza, casuali. Piccoli
dettagli, lo stesso quartiere (visto da prospettive diverse),
un'ultima estate, e, naturalmente, gli animali che specchiandosi
nelle idiosincrasie e nei dilemmi umani, formano un mondo
parallelo. Basta ricordare (e scoprire) il ruolo di James
Dean all'interno della fragilissima coppia di Io
e James Dean o
quello del gatto e degli insetti nello straziante resoconto
dell'incontro di Il
braccio. La
geografia delle emozioni prevede diverse parti d'America, dalla
Florida (dove David James Poissant vive) all'Arizona con una
vocazione verso la West Coast, celebrata dal viaggio al centro
dell'ultimo racconto, Il
paradiso degli animali,
che ha (ancora) come protagonista lo stesso del primo, L'uomo
lucertola,
come se fossero un prologo e un (lungo) epilogo a circoscrivere Il
paradiso degli animali. L'insistita
direzione verso le coste californiane avvicina la raccolta di David
James Poissant, per l'ovvia assonanza, ma anche per il gusto e per il
tatto, alle considerazioni di T. C. Boyle in Gli
amici degli animali:
due diverse versioni dell'ecologia dei sentimenti umani, ma anche del
confuso rapporto con gli altri abitanti dello stesso pianeta. Il
coccodrillo, se lo lasci libero, non ti stacca un braccio a morsi, le
foche per andare sott'acqua mandano giù i sassi e gli ippopotami
proteggono i propri simili anche quando sono caduti perché se per la
vita ci vuole un sacco di amore, per la morte ce ne vuole di più.
Merita un appunto a parte La
geometria della disperazione, composta
dal Diagramma
di Venn e Sveglia
il bambino. Sembrano
già i due capitoli di un romanzo e sono una sintesi decisiva delle
proprietà narrative di David James Poissant. Consigliatissimo, anche
per il futuro.
giovedì 8 ottobre 2015
Bruce Sterling
Premesso che La forma del futuro è un oggetto di design che usa i contorni del libro in sé per enunciare “una cultura di progetto”, bisogna riconoscere a Bruce Sterling la verve dell'intrattenitore con una sorprendente capacità di attraversare i tanti e diversi livelli del racconto. Molto dipende dal fatto che “la fantascienza contiene sempre un qualche tipo di bruciante, sotterranea impellenza sul punto di erompere senza controllo” ed essendo quello il suo habitat naturale, Bruce Sterling è trascinante anche quando cerca di rendere trasparenti concetti come “progettazione rappresentativa”, “metastoria”, “stufato informazionale” e “pantano digitale” o come sia rilevante il valore dei rifiuti come (unico) lascito culturale al prossimo che verrà. E' uno dei segni più netti che tratteggiano La forma del futuro, e forse il suo snodo fondamentale perché come precisa Bruce Sterling “noi umani siamo ciò che gli utensili hanno fatto di noi” avvertendo, subito dopo, che “la nostra cultura è in pericolo, perché manchiamo di idee solide su dove siamo nel tempo e su cosa potremmo fare per assicurarci un futuro. Siamo in difficoltà anche per ragioni tecniche e pratiche: disegniamo, costruiamo e usiamo dispositivi che funzionano male”. Quello che non utilizziamo più, o che abbiamo consumato, è soltanto una parte della macilenta eredità che ci stiamo tramandando di generazione in generazione e La forma del futuro dipende moltissimo da questa spada di Damocle sospesa sopra la testa dell'umanità, come riesce a spiegare con molta chiarezza Bruce Sterling: “E' difficile avere a che fare con l'immondizia. Gli umani hanno sempre fallito nel gestire i rifiuti. Quindi, a lungo andare, il ruolo dei rifiuti è aumentato. Le civiltà collassano, ma le loro rovine sono proverbiali. I rifiuti sono sempre il nostro principale dono culturale al futuro”. Quando Bruce Sterling immagina il futuro (così come il passato, “perché un tempo le cose erano come erano, perché oggi le cose sono come sono e come sembra stiano diventando”) e resta nell'alveo del racconto, della metafora e della suggestione sa rendere credibili i neologismi, le ipotesi, le architetture del linguaggio a cui si applica con lo spirito del designer e il gusto innato del romanziere che però ha capito che “la fantascienza non s'incentra sulla libertà di immaginazione, ma su una libera immaginazione serrata e stridente entro quella morsa che alcuni chiamano vita reale”. Lo sforzo, a quel punto, non è molto diverso da quello dei suoi amici designer che comunque sono altrettanto in trappola visto che “la ricerca per un mondo sostenibile può aver successo, oppure può fallire. Se fallisce, il mondo diventerà impensabile. Se funziona, il mondo diventerà inimmaginabile”. Quando si fa prendere dall'urgenza (ed è abbastanza inevitabile) e passa dalla concretezza del racconto alla rigidità delle teorie, il filo del discorso si ingarbuglia negli schemi e nelle affermazioni apodittiche. Non che le conclusioni non siano apprezzabili (anzi), ma nella seconda parte del libro Bruce Sterling tende ad apprezzare le tesi più che la loro definizione, quasi coinvolto dall'ammissione che “passiamo da un momento in cui l'informazione voleva essere libera a uno in cui la conoscenza anela a trovare forma”. Il futuro, insieme a “un qualche senso di integrità personale”, è una condizione di equilibrio rispetto al tempo e allora, sì, “pensare in termini temporali è una visione morale del mondo”. L'arduo compito è una propaggine dell'osservazione per cui “i cambiamenti davvero radicali nella concezione umana del tempo non sono causati dalla filosofia, ma dalla strumentazione. I più radicali fra i cambiamenti della nostra concezione del tempo derivano da dispositivi tecnologici, da strumenti di percezione temporale: orologi, telescopi, datazioni al radiocarbonio, spettrometri”. Un sacco di gingilli, di gadget, di oggetti, di codici a barre che sono obsoleti ancora prima di essere moderni, che saranno la nostra prossima spazzatura e che comunque ci stanno circondando tanto che La forma del futuro si conclude con una riflessione che sa di profezia: “La condizione umana non verrà improvvisamente abolita, cancellata. Verrà decomposta e riciclata”. Su questo non è difficile essere d'accordo. Sta già succedendo.
venerdì 2 ottobre 2015
Sherwood Anderson
Parziale
come ogni autobiografia che si rispetti, Storia di uno scrittore
di storie parte dall'esperienza propria di Sherwood Anderson, “un
servitore delle parole”, e diventa subito un'assidua e meticolosa
circumnavigazione attorno all'idea di scrittura e di letteratura. La
coincidenza millimetrica con la vita di Sherwood Anderson fa della
Storia di uno scrittore di storie un corso di percezione molto
acuto, che parte proprio da dove ha origine tutto: “Nelle strade
della città non c'erano racconti a lieto fine come sulle riviste. La
vita andava avanti, e fra gli uomini accadevano piccole cose
illuminanti. Sulla strada e nella vita delle persone che passavano
per quella strada si svolgeva un dramma che sembrava penetrare la
vita stessa”. Quella lunga, intensa lezione che è Storia di uno
scrittore di storie, ovvero il racconto del raccontare, si
sviluppa dall'embrionale certezza che “le parole sono tutto” e
poi, per ammissione dello stesso Sherwood Anderson, procede spesso
brancolando nel buio perché la materia, “ le vite e i drammi della
gente”, resta instabile, e non è molto docile quando viene
ingabbiata nella forma predestinata alla pagina. In più, c'è una
questione di stile: le storie le scrive lo scrittore, le filtra
attraverso la sua sensibilità e quella di Sherwood Andeson è quasi
un rivendicazione sindacale: “I miei racconti, narrati e non
narrati, ne sono pieni: fughe in acqua, al buio, su una barca che non
tiene, fughe da situazioni complesse, dalla mediocrità, dalle
pretese, dalla seriosità pomposa dei mezzi artisti. Quale scrittore
di racconti non ha una passione per le fughe? Sono l'aria stessa che
respiriamo”. E' in quell'attimo fugace che l'inafferrabile diventa
visibile, quando la scrittura si manifesta perché “le frasi sono
come le finestre nelle case. Improvvisamente un velo viene strappato,
e tutte le bugie, tutti gli imbrogli che riguardano la vita
scompaiono per un momento”. La ricchezza e in fondo l'estrema
sintesi della Storia di uno scrittore di storie è tutta lì,
in quell'istante in cui Sherwood Anderson si presenta così: “Sto
cercando di raccontarvi la storia di un momento e, in quanto
narratore, mi viene da pensare che tutta la vita non sia fatta altro
che di momenti. Viviamo solo in rari momenti. Volevo uscire dalla
porta e allontanarmi. L'americano è rimasto un vagabondo, un uccello
migratore non ancora pronto a costruirsi il nido. Tutte le nostre
città sono provvisorie, come le case in cui viviamo”. Il rapporto
tra Sherwood Anderson, americano tra gli americani, e l'America, dove
qualcosa “è andato storto fin dall'inizio”, è complicato dal
tentativo di raccontare quel “guazzabuglio” che è l'America
stessa. Molte delle sue impressioni, disseminate lungo tutto l'arco
della Storia di uno scrittore di storie formano, nell'insieme,
una visione articolata, e per niente edulcorata. La lunga
dissertazione comincia con la constatazione di essersi ficcati “in
un buco senza uscita. Puntavamo a essere superuomini ed è saltato
fuori che siamo figli di uomini che dopo tutto non erano così
diabolici. Non possiamo biasimarci se siamo riluttanti a scoprire ciò
che vi è di umano in noi”. La sua è una conoscenza a livello
antropologico, minuziosa e non casuale: “Il vero americano sapeva
qualcosa dei fatti, ma nulla dei sentimenti; seguiva la legge alla
lettera, ma non ne percepiva la sostanza”. Sherwood Anderson non si
esclude dall'abbaglio che è implicito alla fondazione di una
nazione, ma è già qualcosa: “Noi americani dovevamo cominciare a
stare fermi, nella nostra terra, perlomeno con lo spirito. Dovevamo
accettare la nostra materia, affrontarla”, e invece no. E' proprio
lì che la versione di Sherwood Anderson si fa molto radicale:
“Pretendere che abbiamo fatto l'America, sia pure materialmente, mi
sembra ormai come raccontarsi una favola della buonanotte”. Ci sono
storie che si possono scrivere, e ce ne sono altre che non reggono il
confronto. Storia di uno scrittore di storie è (anche) un
manuale che insegna a distinguerle. Obbligatorio.