Fuggendo
dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua
moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla,
soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a
cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e
confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro,
sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo.
La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo
raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga
marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente
in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di
essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a
una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per
scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi.
Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o
erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati
spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e
le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la
terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si
inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica
tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi
danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea
di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi
non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono
tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni
brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca
una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante
sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica
odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un
giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella
loro vita niente cambiò”. In
quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla
sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per
aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti
non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi,
deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo
straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti
in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti
e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle
strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano
coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una
differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino,
legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni
d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità
illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va
a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo
sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse
mai una fine. A Io
sono l'argilla si
adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo
definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e
guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le
abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi
termini, Io
sono l'argilla non
lascia indifferenti.
mercoledì 30 settembre 2015
martedì 29 settembre 2015
Stephen King
Tutto
comincia con “quel mormorio che è il principio della leggenda”,
un'atmosfera sfuggente e carica di elettricità, “un odore giallo,
bagnato”: un ricordo che affiora, debole, sfumato e impreciso,
eppure efficace nel trasmettere un'inquietudine di cui non si
intuiscono le origini, “come guardare attraverso un sottile strato
di ghiaccio, simile a quello che puoi staccare da una cisterna in
novembre se prima lo picchietti lungo i bordi, guardarci attraverso e
vedere la tua infanzia. E' un'immagine incerta e annebbiata e in
certi punti si spegne nel nulla, ma nell'insieme c'è ancora tutta”.
Stephen King è fantastico nel celebrare le suggestioni, le ombre e i
misteri e, forse, per una legge del contrappasso, appare fin troppo
lineare quando i mostri si rivelano per quello che sono. L'incognita
è sempre più affascinante perché catalizza i dubbi, le tensioni,
le emozioni, lasciando nelle zone dell'indicibile molto spazio
all'immaginazione, e di conseguenza al lettore. Con Le
notti di Salem
Stephen King ha trovato il modello che poi ha usato con più
frequenza (e con alterni risultati) fino a Revival,
e oltre. Ci sono tutti i luoghi comuni e le logiche che poi
torneranno a cicli più o meno regolari: la casa (infestata), il
mostro e il suo servitore, la città (di provincia), il conflitto
(irrisolto) tra bene e male. I mostri (in questo caso, i vampiri in
dichiarato omaggio a Bram Stoker e al suo Dracula)
sono più impressionanti quando non si vedono, quando sono celati o
persino rimossi dalla routine, dalle abitudini e dalla noia. In quei
frangenti Le
notti di Salem
tocca davvero più di un nervo scoperto: una smalltown che è già
una città fantasma (prima dell'arrivo degli stranieri) perché
viverci è prima di tutto “è un fatto prosaico, sensuale,
alcolico”. La gente ascolta le conversazioni al telefono duplex
(oggi sembra un reperto archeologico) e l'umanità che scopriranno i
vampiri nelle loro fameliche scorribande non è meno mostruosa delle
loro sembianze, di sicuro condivide un'estrema solitudine. Stephen
King svela l'intreccio (non la trama: “Narrare è fisiologico come
respirare; sviluppare una trama è l'equivalente letterario della
respirazione artificiale”) fin dall'inizio quando la love story tra
Ben Mears e Susan Norton sta sbocciando e sembra non esserci nulla
che possa impedire il fiorire della felicità, se non la consolidata
esperienza umana che l'orrore dissimula tra indifferenza, corruzione,
avidità e altri fenomeni legati agli affari. Le
notti di Salem
è emblematico perché i vampiri spalancano le porte e le finestre su
un villaggio, un paesaggio e attraverso i loro occhi l'America appare
per quello che è, un paese di spostati. Stephen King lascia molto in
sospeso e anche la più recente edizione, una sorta di director's cut
con prefazione, postfazione e tutte le scene tagliate in fase di
revisione, non risolve il primordiale dilemma. Pur aggiornando e
sublimando le leggende e i trascorsi dei vampiri, resta incerta la
loro essenza di mostri, così come è molto sbiadito il ruolo di
vittime per i cittadini di Salem, che tanto innocenti non sono.
L'ambiguità comprende anche un filo di ironia, per niente datata:
“Resta con i piedi per terra. Il mondo va a rotoli e tu ti fai
scrupolo per qualche vampiro”. E' quel tocco di classe, che fa la
differenza.
venerdì 25 settembre 2015
Allan Gurganus
Nord
e Sud Carolina, tra il 1954 e il 1960: padre e figlio (stesso nome:
Clyde Meadows Delman) distribuiscono bibbie, la domenica. Per il
primo è un'estensione del suo lavoro (è un commesso viaggiatore e
l'automobile, in pratica, è la sua vera casa) e un modo per
ricostruire una parte della sua vita. Per il secondo, il più
piccolo, è una continua scoperta e sorpresa in “un periodo in cui
le cose andavano a gonfie vele, un momento di semplicità che
confinava in parte con l'idiozia”. L'appunto, molto sibillino, si
fa notare fin dall'inizio. La madre, e moglie, con il nome
propiziatorio di Grace, rimane isolata e nella sua (nemmeno tanto)
splendida solitudine consuma rapporti intensi e fugaci, e tutti lo
sanno, perché Falls (altro nome suggestivo) è un libro aperto, come
tutte le sacrosante smalltown. Un trittico di eventi (a partire da
quello centrale, annunciato fin dal travolgente incipit) spezza la
stramba trinità della famiglia Delman e il Clyde junior, come
andrebbe anche nella realtà, se ne assume la responsabilità, per
quanto ignaro delle contorsioni dell'età adulta: “Ho portato il
mondo dentro casa e tutti noi ormai dobbiamo vivere così, scoperti,
nell'arida luce pubblica”. In superficie, Allan Gurganus è
ironico, elegante, persino cinematico nel raccontare l'America dei
motel e delle automobili, delle strade e di quello che c'è ai
margini delle strade. Il linguaggio (però) non è per niente
politically correct: è scomodo, spigoloso, a volte urticante, come
sa esserlo Allan Gurganus, in Santo
mostro
più che altrove. La voce è immediata, forte, pungente. Per dire,
anche particolari che sfuggono sullo sfondo lampeggiano da soli e
quindi le forsizie diventano punti interrogativi. Per articoli più
importanti, Allan Gurganus ci aggiunge un pizzico di fiele in più e
allora la Packard Clipper Deluxe su cui transitano e abitano è “una
delle ultime volte il cui la pubblicità americana dichiarava il
vero. E mio padre era l'uomo più gentile del mondo”. Tutte le
altre forme vengono ricondotte ai due Clyde Meadows Delman e al
segreto che li unisce. Clyde Meadows Delman è brutto, il volto “era
il corrispettivo facciale delle uova strapazzate” e, in effetti,
Santo
mostro
è anche un'apologia della bruttezza. Solo che è anche dolce,
premuroso, “un uomo che a dispetto di tutte le circostanze aveva
imparato a intrattenere se stesso e poi gli altri”. Ognuna delle
storie e delle frasi che compone Santo
mostro
è un'esplosione di parole e la giustificata ossessione per
l'identità produce un legame riservato ed esclusivo, che Clyde (il
figlio, ma forse anche il padre) risolve pensando che “forse basta
credere in una cosa. E' quasi tutto lì”. Quando l'infanzia e il
tempo ramificato dei due scompaiono insieme, Clyde, il vecchio,
sembra aggrapparsi al passato perché il mondo di allora era “più
semplice, frontale come uno spettacolo di burattini, era perfino più
bizzarro”. Clyde, il giovane, si accorge invece che sta
“velocemente diventando adulto se diventare adulti vuol dire
violare qualche legge meschina in nome di ragioni più generose e
importanti”. Rimane solo (e sola) Grace che, liberando le sue
energie, trasformerà gli occasioni tête-à-tête
in una serie di redditizi matrimoni. Niente di più americano, con un
finale beffardo, e perfetto.
domenica 20 settembre 2015
James Lee Burke
Come
tutti gli ultimi capitoli della saga di Dave Robicheaux, Creole
Belle si aggrappa ai fantasmi, così com'è per la Louisiana, “la
puttana di tutti” su cui incombono gli effetti devastanti
dell'uragano Katrina e dell'esplosione sulla piattaforma petrolifera
Deepwater Horizon. I due disastri (tutt'altro che naturali o
imprevedibili) sono ferite ancora aperte che James Lee Burke
accarezza con passaggi regolari e reiterati in Creole Belle, a
ricordare che “siamo servi qui, non giocatori. Tutto ciò che
accade qui è orchestrato da estranei o da politici. Si tratta di una
conclusione deprimente a cui arrivare. Ma questo è il modo in cui le
cose girano. Noi ci mettiamo in ginocchio per chiunque porti il suo
libretto degli assegni”. All'amarissima constatazione, James Lee
Burke risponde tenendo in vita i panorami di un paesaggio che ormai è
una visione e Creole Belle è avvinghiato a quelle sfumature,
a quei paesaggi e, più che in altri romanzi, a quelle canzoni e a
quelle storie. La descrizione delle atmosfere e del clima, dei
colori e degli odori è la prassi costante che fa procedere la
narrazione per folate, come la nebbia nel bayou e dentro quel flusso
emergono, uno dopo l'altro, i personaggi. L'insieme è inestricabile,
denso, paludoso: Creole Belle è un romanzo formato famiglia
in cui i rapporti tra padri e figli (e figlie, soprattutto) sono
determinanti: Dave e Alafair Robicheaux, Jesse e Varina Leboeuf,
Alexis e Pierre Dupree (e non finisce qui) sono coinvolti da un
moltiplicatore di legami sotterranei. Il retaggio di Creole Belle
è più che mai composito e conflittuale e come se fosse un'antologia
di Streak non manca niente: la schiavitù e il razzismo, la guerra
civile, lo sfruttamento degli uomini, delle donne e dell'ambiente, la
prostituzione, i rapporti tra il crimine organizzato e la politica,
con poca o punto distinzione ormai, i predicatori e i nazisti, la
mafia e i delinquenti dei bassifondi, i pedofili e i poliziotti
corrotti, i politici incapaci e gli avventurieri, e poi loro i
Bobbsey Twins del dipartimento di polizia di New Orleans che
combattono contro tutto e tutti, ma prima ancora contro i propri
spettri allo specchio. James Lee Burke, e non c'è dubbio, con tutta
la sua retorica e la morale, ispira sempre simpatia per la
naturalezza e per la logica con cui alla fine, anche la giustizia è
fuorilegge ed è estranea alle regole perché “la gente si chiede
come la giustizia venga spesso negata a quelli che più la meritano.
Non è un mistero. La ragione per cui guardiamo drammi artificiosi
della legge è che spesso la realtà è così deprimente, che nessuno
ci crederebbe”. Viste le condizioni, è inevitabile che Clete
Purcel, diventi il vero protagonista di un ribaltamento di fronte
che, nelal sostanza, ha un solo comandamento: “Devi fare un passo
indietro e lasciar volare via tutte le preoccupazioni, le complessità
e la confusione della tua vita nel vento. Devi credere che il sole
sorgerà a est, e non è degli agili la corsa, e la pioggia scenderà
sia sul giusto che sull'ingiusto. Devi dire fanculo e dirlo sul serio
e lascia che i dadi rotolino fuori dalla tazza come vogliono”.
Finisce in un'apocalisse, e non potrebbe essere in un altro modo,
dato che Clete Purcel non si è mai preoccupato molto delle
conseguenze del giorno dopo, e, parole sue, “se mi danno un pieno
di serpenti di mattina, sono i miei serpenti”. Non fa una piega e,
come dice la canzone Jimmy Clanton, Just A Dream, che viene da
un lontano passato, forse è solo un sogno. James Lee Burke, pur
citando Thomas Wolfe, William Faulkner, Hemingway, Tennessee Williams
e Shakespeare più di tutti, se rende conto e chiedergli di più è
rischioso perché lui e Dave Robicheaux e tendono a coincidere e
ormai hanno passato così tanto tempo insieme che sembra di
conoscerli, e sull'onestà di entrambi non si discute. Bisogna solo
accomodarsi sulla Caddy di Clete Purcel e lasciarsi trasportare nel
caos degli uomini e dei loro spiriti, buoni o cattivi che siano.
giovedì 17 settembre 2015
James Hillman
Tra
gli effetti collaterali più subdoli e ambigui dei conflitti c'è
quella condizione, dolorosa e pericolosa, che soltanto negli ultimi
anni è stata riconosciuta nella definizione
del disturbo post traumatico da stress. La traduzione di James
Hillman in Un
terribile amore per la guerra supera
la precisione della terminologia scientifica e riporta quella
frattura nell'alveo originale, essendo
determinata
da
“un'esperienza
di un evento che va oltre la gamma della normale esperienza umana”.
La distinzione è il tema centrale di Un
terribile amore per la guerra,
un
titolo che non è provocatorio: c'è sempre una pulsione originale e
primordiale che spinge il “senso di identità” a sovrapporsi
all'identificazione con la certezza della morte, probabilità più
che prevedibile in zona di combattimento. James Hillman parte quindi
dalla considerazione che la guerra è “una condizione primaria” o
meglio, come affermava Michel
Foucault, che “la storia che ci regge e ci determina ha la forma
della guerra più che del linguaggio: rapporti di potere, non
rapporti di senso”. Un
terribile amore per la guerra ruota
proprio attorno a queste parole, come spiega a più riprese James
Hillman: “Noi pensiamo secondo la categoria
della guerra, ci sentiamo in dissidio con noi stessi e senza
rendercene conto siamo convinti che la predazione, la difesa del
territorio, la conquista e la battaglia interminabile di forze
opposte siano le leggi fondamentali dell'esistenza”. E' dove nasce
Un terribile amore per la guerra ed è dove matura la
coscienza che “la
complicità nei crimini di guerra non ha confini netti; siamo tutti
appassionati voyeur”. Non è facile accettarlo, ma è davvero così,
e lo ammette anche James Hillman: “Gli
scrittori, specialmente gli scrittori di guerra, non creano, ma
ricreano, e la lettura è insieme ricreazione e ri-creazione di ciò
che è sfuggito alla presa del presente per nascondersi nei recessi
dell'anima, di ciò che è rimosso, dimenticato”. Detto questo,
James Hillman non manca di far notare una delle contraddizioni più
feroci che implica la guerra: “è un fenomeno umano organizzato”
e d'altra parte “trasforma gli esseri umani in parti, parti di
ricambio”. Nonostante questa peculiarità, che migliaia e migliaia
di anni possono confermare, così come la nostra quotidianità, “la
guerra è permanente, non irrompente; necessaria, non contingente; è
la tragedia che fa impallidire ogni altra e che rende possibile
l'amore”. Un
terribile amore per la guerra
svela qui perché la guerra “offre percezioni già deformate, scene
già di per sé immaginative. Perciò i testimoni dicono: era
irreale, fantastico, inimmaginabile, perché l'esplosiva
imprevedibilità della guerra è immaginazione dispiegata”, o,
meglio ancora, “la guerra si nutre di immaginazione ed è
alimentata dall'immaginazione”. Il vero danno che infligge vivere
Un
terribile amore per la guerra
è, come scriveva Don DeLillo, che “la
guerra ci dice che è sciocco credere”. E'
inevitabile davanti alla realtà infinita della guerra, quella che
James Hillman descrive senza voli pindarici: “Questo è ciò che
fanno le guerre, ciò che sono le battaglie; sono le convenzioni del
saccheggio su scala mostruosa sia individuale sia collettiva, sono
implacabili comportamenti archetipici”. La
conclusione è realistica, per quanto drastica perché, pur con tutti
i tentativi di edulcorare, ridimensionare, truccare il volto della
guerra, “tuttavia
il suolo deve pur sempre essere calcato dallo scarpone del soldato. I
morti vanno pur sempre seppelliti. Nonostante la distanza, il
linguaggio astratto, le operazioni segrete, le bombe esplodono pur
sempre, i conflitti a fuoco scoppiano a pochi metri, di casa in casa,
di vicolo in vicolo, a ogni blocco stradale, ai checkpoint, sulle
rive del fiume, tra gli alberi. La guerra scende sulla terra”. Se
bisogna riflettere, tanto vale partire da lì, dove l'amore non c'è
più, e resta solo il terribile.
martedì 8 settembre 2015
Edgar Allan Poe
Il
corvo, con
quegli occhi che “sono
quelli di un demonio che ora sogna”, rimane una delle allegorie più
potenti e inquietanti che si siano mai elevate dalle pagine della
letteratura. Al di là dell'aspetto fantastico e gotico, ormai ben
noti, quello di Edgard Allan Poe è uno sguardo comunque coraggioso e
temerario che ha portato un raffinato ed evoluto narratore come E. L.
Doctorow a definirlo “sovversivo”. Il riconoscimento, quanto mai
appropriato, parte dalla forma, la poesia, la sua brevità, l'essenza
stessa della scrittura. Edgar
Allan Poe scriveva presentando i racconti di Nathaniel Hawthorne: “Se
fossimo costretti a dichiarare quale sia la maniera più proficua in
cui il genio superiore possa dare una dimostrazione delle sue
facoltà, senza esitare risponderemmo: nella composizione di una
poesia in rima che non superi in lunghezza quel che si potrebbe
leggere in un'ora. Il grado più elevato di poesia può esistere
esclusivamente all'interno di questi limiti”. Il
corvo
risponde a questo dettato estrapolando “un sapere remoto” da una
limitatissima porzione di spazio e e di tempo e “su fondali
violacei e verdastri, dove si manifestano la fosforescenza della
putrefazione e l'odore della tempesta”, come li descriveva Charles
Baudelaire, riesce a stagliare un'opera densa, sanguigna e spiritata.
La delimitazione diventa funzionale così com'era nelle intenzioni di
Edgar Allan Poe: “Mi è sempre sembrato che una precisa
circoscrizione
dello spazio
sia assolutamente necessaria all'effetto di un avvenimento isolato:
essa ha l'efficacia di una cornice per un quadro. Essa possiede un
indiscutibile potere nel mantenere concentrata l'attenzione e,
naturalmente, non deve essere confusa con la semplice unità di
luogo”. La dimensione è quella del sogno, quello che emerge dal
buio e nella notte e da lì, più in rilievo, la propaggine logica e
naturale della solitudine. O viceversa: Edgar Allan Poe non nasconde,
come scrive in Eulalie,
di vivere in “un mondo d'affanni” e che tutti i suoi giorni “son
delirio” (lo dice in Per
qualcuno in paradiso).
Trasmettere l'angoscia non è una missione indolore e Il
corvo
è la cronaca di una fuga verso un universo parallelo da cui non si
può fuggire: Un
sogno in un sogno,
concetto ribadito in Ulalume
(“Tutto
quel che vediamo o sembriamo è un sogno in un sogno soltanto”) e
che riporta verso La
valle dell'inquietudine dove
“non v'è nulla che immobile resti se non l'aria che resta sospesa
sulla sua solitudine magica”. Non c'è scampo, l'unico appello è
quello Alla
scienza, “in
cerca di riparo” ed è l'ultima spiaggia, l'unico appiglio
razionale, più per dovere che per altro. In effetti, aveva ragione
Lou Reed: “Di certo Edgar Allan Poe è il più classico degli
scrittori americani, uno scrittore paradossalmente più in sintonia
col battito cardiaco del nostro secolo appena nato di quanto lo sia
mai stato con quello proprio. Ossessioni, paranoie e azioni
deliberatamente autodistruttive ci circondano da ogni parte. Anche
invecchiando, continuiamo a sentire le urla di coloro per i quali il
fascino di un caos luttuoso è irresistibile”. Le ombre che
galleggiano, le foreste e le tenebre, le parole d'addio, gli odori e
i dolori sono qualcosa che si snoda dalla dimensione poetica verso
quella profetica. Un avvertimento, molto preciso.
giovedì 3 settembre 2015
Alice Munro
Uno
degli aspetti più affascinanti di Alice Munro è l'intimità del suo
rapporto con la scrittura, definita a più riprese come qualcosa di
irrinunciabile, spontaneo, necessario e naturale,
“come respirare”. Nello stesso tempo, la gestione è complessa e
articolata per sua stessa ammissione: “Mi sembra di riuscire ad
afferrare quello di cui devo scrivere con grandissima difficoltà”.
Nei racconti di In fuga
questa sensazione è palpabile e si nota nella loro meticolosa
elaborazione. Alice Munro, qui ormai con un'esperienza consolidata e
riconosciuta, sa che l'incipit è (sempre) fondamentale e nelle short
stories, visti gli stretti margini di manovra, vale l'intera posta in
gioco. Tutti gli inizi di In fuga potrebbero
essere adottati come esempi in qualsiasi corso di scrittura creativa,
a partire dalle prime, fenomenali sei righe di Fatalità:
“Nel 1965 il semestre a Torrance House si conclude a metà giugno.
Juliet non ha ricevuto l'offerta di un impiego stabile, l'insegnante
che ha sostituito si è rimessa in salute, perciò ora potrebbe
riprendere la via di casa. Ma ha deciso di concedersi quella che ha
definito una breve deviazione. Una breve deviazione per far visita a
un amico che abita su al nord, lungo la costa”. Lo stesso si
potrebbe dire del passo iniziale di Passione:
un altro lungo e brillante incipit che sembra ricollegarsi come un
circuito chiuso al finale dove la protagonista parla di “avviare
una vita”. Qualcosa comincia proprio dove Passione
finisce lasciando al lettore la facoltà di fantasticare un seguito,
o tornare al via. Quello che Alice Munro non concede
all'immaginazione è l'ambiente e il paesaggio: in Passione,
come in Poteri, come
ovunque nei suoi racconti, la descrizione dello scenario naturale
naturale, così assidua, appassionata, florida, scorre parallela e
costante ai temi, agli incontri e alle partenze degli uomini e
(soprattutto) delle donne e contribuisce in modo determinante a
creare l'atmosfera, il tono, lo stile. Quando poi ci si addentra
nelle storie, serve molta attenzione, se non proprio la capacità di
immedesimarsi nei personaggi, perché Alice Munro è capace di
cambiare prospettiva nel giro di poche frasi, passando da forme
introspettive (come succede in Scherzi del destino:
“I ricordi, attraverso il ricamo della memoria, non facevano che
scavare solchi più profondi. E' importante che ci siamo
incontrati. Sì. Sì”) a
divagazioni in cui affiorano i Beatles, Colazione da
Tiffany e Johnny Mercer o “una
specie di jazz” (non meglio identificata, ancora in Scherzi
del destino), anche se la vera,
continua citazione è Shakespeare e le fonti di ispirazioni rimangono
Eudora Welty, Flannery O'Connor, Katherine Ann Porter, Carson
McCullers perché è leggendole che ha scoperto“che le donne
potevano scrivere di cose particolari, di ciò che è marginale”.
Resta da dire che il trittico composto da In fuga,
Fatalità e Silenzio è
il maggior sforzo di Alice Munro per avvicinarsi al romanzo, visto
che la protagonista è sempre la stessa Juliet, ma poi
è come se attraverso le parole dei suoi personaggi prendesse forma
un'altra visione: “Cambia la
percezione di ciò che è possibile, di ciò che è successo, non
solo di quello che può succedere ma di quello che è successo. La
mia vita è piena di realtà sconnesse e le vedo nella vita degli
altri. E' stato uno dei problemi, del perché non sono riuscita a
scrivere romanzi, non sono mai riuscita ad avere una visione
complessiva nel loro insieme”. Nobile ammissione, i racconti
bastano e avanzano.