Tutto
comincia con “quel mormorio che è il principio della leggenda”,
un'atmosfera sfuggente e carica di elettricità, “un odore giallo,
bagnato”: un ricordo che affiora, debole, sfumato e impreciso,
eppure efficace nel trasmettere un'inquietudine di cui non si
intuiscono le origini, “come guardare attraverso un sottile strato
di ghiaccio, simile a quello che puoi staccare da una cisterna in
novembre se prima lo picchietti lungo i bordi, guardarci attraverso e
vedere la tua infanzia. E' un'immagine incerta e annebbiata e in
certi punti si spegne nel nulla, ma nell'insieme c'è ancora tutta”.
Stephen King è fantastico nel celebrare le suggestioni, le ombre e i
misteri e, forse, per una legge del contrappasso, appare fin troppo
lineare quando i mostri si rivelano per quello che sono. L'incognita
è sempre più affascinante perché catalizza i dubbi, le tensioni,
le emozioni, lasciando nelle zone dell'indicibile molto spazio
all'immaginazione, e di conseguenza al lettore. Con Le
notti di Salem
Stephen King ha trovato il modello che poi ha usato con più
frequenza (e con alterni risultati) fino a Revival,
e oltre. Ci sono tutti i luoghi comuni e le logiche che poi
torneranno a cicli più o meno regolari: la casa (infestata), il
mostro e il suo servitore, la città (di provincia), il conflitto
(irrisolto) tra bene e male. I mostri (in questo caso, i vampiri in
dichiarato omaggio a Bram Stoker e al suo Dracula)
sono più impressionanti quando non si vedono, quando sono celati o
persino rimossi dalla routine, dalle abitudini e dalla noia. In quei
frangenti Le
notti di Salem
tocca davvero più di un nervo scoperto: una smalltown che è già
una città fantasma (prima dell'arrivo degli stranieri) perché
viverci è prima di tutto “è un fatto prosaico, sensuale,
alcolico”. La gente ascolta le conversazioni al telefono duplex
(oggi sembra un reperto archeologico) e l'umanità che scopriranno i
vampiri nelle loro fameliche scorribande non è meno mostruosa delle
loro sembianze, di sicuro condivide un'estrema solitudine. Stephen
King svela l'intreccio (non la trama: “Narrare è fisiologico come
respirare; sviluppare una trama è l'equivalente letterario della
respirazione artificiale”) fin dall'inizio quando la love story tra
Ben Mears e Susan Norton sta sbocciando e sembra non esserci nulla
che possa impedire il fiorire della felicità, se non la consolidata
esperienza umana che l'orrore dissimula tra indifferenza, corruzione,
avidità e altri fenomeni legati agli affari. Le
notti di Salem
è emblematico perché i vampiri spalancano le porte e le finestre su
un villaggio, un paesaggio e attraverso i loro occhi l'America appare
per quello che è, un paese di spostati. Stephen King lascia molto in
sospeso e anche la più recente edizione, una sorta di director's cut
con prefazione, postfazione e tutte le scene tagliate in fase di
revisione, non risolve il primordiale dilemma. Pur aggiornando e
sublimando le leggende e i trascorsi dei vampiri, resta incerta la
loro essenza di mostri, così come è molto sbiadito il ruolo di
vittime per i cittadini di Salem, che tanto innocenti non sono.
L'ambiguità comprende anche un filo di ironia, per niente datata:
“Resta con i piedi per terra. Il mondo va a rotoli e tu ti fai
scrupolo per qualche vampiro”. E' quel tocco di classe, che fa la
differenza.
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