E’
difficile trovare una definizione utile e concreta per circoscrivere le
moltitudini smosse dall’estro e dall’inventiva di Carl Sandburg. In un suo
possibile autoritratto ci sono diverse ipotesi di partenza e nella prima,
riportata nell’introduzione a Poesia di Chicago dice: “Ho scritto seguendo metodi diversi e
rispondendo a una congerie di stati d’animo eterogenei, e per lo più non ho
esitato a muovermi per terre e mari verso l’incontro con immagini fresche e con
nuove canzoni. Per tutta la vita ho cercato di imparare a leggere, vedere,
udire e scrivere”. In effetti è stato uno scrittore e un lettore a tutto tondo
(nonché un ricercatore assiduo e meticoloso, valga su tutto il fondamentale American
Songbook) incapace di arrestare gli
appetiti per rumori e parole e nello stesso tempo sempre fiducioso nella loro
forza: “Mi piacerebbe pensare che mentre vado avanti scrivendo ci possano
essere frasi veramente vive, con verbi tremolanti, con nomi che danno colore e
producono echi”. I Chicago Poems sono
l’elemento più rappresentativo della sua identità poetica, di un linguaggio che
parte dal basso, dalle strade, dalle fabbriche, dai mattatoi e si forma
attraverso un’elaborazione che ha la semplicità come scopo e che collima con
l’esortazione finale di Carl Sandburg: “Trovate con le vostre matite un modo di
segnare il vostro ricordo di stanchi volti vuoti”. Il suo approssimarsi a
un’idea di stile procede per vie parallele nel prendere confidenza con gli
strumenti del lavoro e nell’inoltrarsi in zone sconosciute ai più poeti e
affrontate con la convinzione di un solo metodo: “Il modo più sicuro di
scrivere di altre terre è essere fedele alla propria terra e fedele agli
scenari e alla gente che amiamo in modo umano e diretto senza essere stati
istruiti a farlo”. Crocevia pulsante, industrioso e pericoloso dell’America,
Chicago è il luogo perfetto per la poesia come la immagina Carl Sandburg, sia
dalla parte della fatica e dell’alienazione (scrive per Le porte della
fabbrica: “Non tornate più indietro.
Dico arrivederci quando vi vedo oltrepassare le porte, le inesorabili porte
aperte che chiamano e attendono e poi vi prendono, per quanti centesimi al
giorno? Quanti centesimi per gli occhi e le dita assonnate? Vi dico arrivederci
perché so che incidono i vostri polsi, nel buio, nel silenzio, giorno dopo
giorno, e vi prendono il sangue goccia a goccia, e voi, siete vecchi prima di
esser giovani. Non tornate più indietro”) sia alla ricerca di un’ideale Felicità: “Ho chiesto a professori che insegnano il
significato della vita di dirmi cos’è la felicità. e sono stato da famosi
funzionari che dirigono il lavoro di varie migliaia di uomini. Hanno scosso
tutti la testa sorridendo come se volessi scherzare prendendomi gioco di loro.
E poi una domenica pomeriggio io stavo vagando sulla riva del fiume Desplaines
e ho visto una folla di ungheresi sotto gli alberi insieme alle loro mogli e ai
loro bambini e con un barilotto di birra e una fisarmonica”. Blue-collar, ma
con l’anima pulita.
giovedì 30 maggio 2013
martedì 28 maggio 2013
David Remnick
La costruzione di una
rock’n’roll star è un lavoro imponente, affascinante e soprattutto infinito. E’
una continua metamorfosi in cui il personaggio e l’essere umano giocano una
delicata partita psicologica complicata da una serie sterminata di variabili e
incognite che vanno dall’accordatura della chitarra alla qualità della stampa
dei dischi, dal costo dei biglietti dei concerti alle posizioni raggiunte nelle
classifiche. Non c’è niente di umano ed è ammirevole la dedizione con cui Bruce
Springsteen si è prestato a definire la sua idea
di rock’n’roll star, dedicandogli tutta la vita, professionale e non. E’ la
“totale applicazione” che racconta David Remnick nel suo Ritratto di Bruce
Springsteen e che ripercorre l’essenza della sua biografia (niente di
nuovo all’orizzonte) aggiornandola agli eventi più recenti e alternandola alla
cronaca delle fasi iniziali del tour di Wrecking Ball. David
Remnick ha un pass privilegiato perché accede a luoghi privati, così come a
dettagli dolorosi e scomodi e la sua versione del real world di Bruce
Springsteen è essenziale, precisa, coerente. L’approccio è po’ troppo
politically correct per essere convincente e in questo We Are Alive non si
discosta molto dalle altre biografie springsteeniane. Una riflessione
interessante può partire dalla critica di Leon Wieseltier, peraltro abbastanza
sgangherata, quando cercando di demolire Springsteen attraverso David Remnick
scrive che “il rock’n’roll dimostra che Herbert Marcuse aveva ragione. Non ci
sarà alcuna rivoluzione in America. Questa società continuerà a contenere le
sue contraddizioni senza risolverle, assorbirà l’opposizione e la ricompenserà,
trasformerà il dissenso in cultura e commercio. L’errore di Marcuse era credere
che fosse una cosa brutta. E’ una cosa bella, invece, perché ci risparmiamo gli
strazi delle purificazioni politiche”. L’asserzione, nell’essenza conservatrice
che esprime (nel senso più ampio del termine), ha una sua lucidità perché
dimostra di (non) aver capito le potenzialità del rock’n’roll, che sono rivoluzionarie
a livelli che il potere costituito non è mai riuscito a comprendere. Su questo
Bruce Springsteen alza una bandiera per niente arrendevole, facendosi carico
anche delle inevitabili ironie legate all’età con cui ancora calca i palchi per
ore e ore: “Tutto deve essere routine, responsabilità, decoro. Un mondo chiuso.
Ma la musica, quando è davvero buona, spalanca di nuovo la porta e ci fa
entrare la gente, la luce, l’aria, l’energia”. Allora, quel We Are Alive
stampato in copertina comincia ad avere un senso diverso: anche se Clarence
(Clemons) e Danny (Federici), e li chiamiamo per nome perché siamo parte in
causa, non ci sono più, anche se lo show con la E Street Band è diventato un
party sui generis, un po’ bring the family, un po’ festa di fine stagione,
suona comunque felice e liberatorio, come nient’altro. E alla fine il più
sincero è ancora lui, Bruce Springsteen, quando dice che “è tutto teatro”, ed è
meglio così perché della realtà ne abbiamo abbastanza.
sabato 25 maggio 2013
Denis Johnson
Train Dreams
affonda nelle radici delle origini di una nazione, nella sua terra, nelle
miniere scavate per il carbone, nelle foreste disboscate per farne legname per
i faraonici ponti ferroviari che superavano gole impossibili, nelle praterie
solcate dai binari, dalle route e poi dalle highway. Nel perimetro esterno di Train
Dreams si intravedono le
contraddizioni che minano le fondamenta alla base della costruzione di un paese
e Denis Johnson è molto abile a dissimularle nel corso del racconto perché la
storia del suo protagonista, Robert Grainier, scorre in parallelo e in simbiosi
con la metamorfosi di un intero paesaggio. E’ la “terra trasformata” di William
Cronon, quella che vive e lavora Robert Grainier, una frontiera che si snoda
nelle foreste e sul fiume, ma che è anche un confine, una linea nella coscienza
degli esseri umani perché la lotta con e contro la natura (c’è un fiume che si
porta nella corrente un intero ufficio postale, neanche fosse una barchetta, e
un incendio distrugge la sua famiglia, moglie e figlia) è impari. Come scrive
William Cronon “Tutti i gruppi umani modificano consapevolmente il proprio
ambiente fino ad un certo limite, si potrebbe sostenere che questo, insieme al
linguaggio sia il tratto che distingue gli uomini dagli altri animali, ed il
modo migliore per misurare la stabilità ecologica di una cultura potrebbe
essere il successo dei cambiamenti ambientali sviluppati per mantenere la
propria capacità di riprodursi. Ma se prescindiamo dall’asserzione circa
l’equilibrio ambientale, l’instabilità delle relazioni umane con l’ambiente può
essere usata per spiegare le trasformazioni sia culturali sia ecologiche”. E’
proprio quello che ha sviluppato, in termini narrativi, Denis Johnson in Train
Dreams: attraverso la vita di Robert
Grainier, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, visto che
“aveva cominciato la storia della sua vita con un viaggio in treno di cui non
ricordava nulla, ed era finito a gironzolare intorno a un treno con a bordo
Elvis Presley”, ricostruisce il legame controverso con la mitologia del West (e
qui s’incrocia con l’epopea di Cormac McCarthy) e il radicale confronto con la
wilderness dove (prima regola) “un albero finché lo lasciavi indisturbato,
poteva esserti amico” e poi (seconda e ultimo avvertimento) “eccoti sistemato.
Ecco cosa succede, ecco quello che dicono: non esiste lupo vivente che non
possa addomesticare un uomo”. In effetti c’è un larice che i boscaioli chiamano
“crea-vedove” e sono loro, e gli abeti, i lupi, gli animali e senza dimenticare
i nativi Kootenai a condividere l’avventura in un territorio selvaggio e in
gran parte ancora sconosciuto. Come dice ancora William Cronon “un mondo
lontano e i suoi abitanti gradualmente divengono parte dell’ecosistema di
un’altra popolazione, cosicché è sempre più difficoltoso sapere quale
ecosistema sta interagendo con quale cultura. L’annullamento dei confini può di
per sé diventare la questione principale”, ed è per questo che Train Dreams
spiega la frontiera, e il West, più di mille saggi.
lunedì 20 maggio 2013
Jon Wiener
Il 4 febbraio 1972 il senatore americano Strom
Thurmond invia un memorandum al presidente Richard Nixon (e qui è storicamente
corretto fare nomi e cognomi) per sottolineare la necessità di intervenire, con
tutti i mezzi possibili, su John Lennon. In realtà l’F.B.I. guidata da John
Edgar Hoover aveva già aperto un dossier su questo musicista, già “membro del
gruppo The Beatles” e così appassionato di politica, così come li aveva aperti
su chiunque avesse anche una vaga simpatia per posizioni divergenti. Qui comincia
un intreccio di coincidenze che è difficile, alla luce della ricerca di Jon
Wiener, definire ancora tali: per esempio, Strom Thurmond è lo stesso senatore
che avrebbe voluto usare la bomba atomica in Vietnam; Richard Nixon è lo stesso
presidente americano costretto a dimettersi per lo scandalo del Watergate; John
Edgar Hoover è stato il protagonista di un ambiguo centro di potere da lui
sviluppato dentro e attorno l’F.B.I. e ad altre agenzie federali più o meno
segrete. I suoi agenti speciali seguirono John Lennon giorno per giorno per più
di un anno, in cerca di un reato, un motivo per espellerlo dagli Stati Uniti,
ma alla fine dovettero cedere. Tutto quel dossier è diventato in gran parte
pubblico grazie agli sforzi e alle battaglie condotte da Jon Wiener che è
arrivato ad appellarsi alla Corte Suprema per scoprire la verità. E' tutto
raccontato in Dimmi la verità: il dossier dell’F.B.I. su John Lennon, che esplora e racconta
almeno due battaglie per la libertà. La prima è quella di John Lennon che ha
dovuto subire le persecuzioni dei principali servizi segreti americani per le
sue posizioni contro la guerra, per i diritti civili, per avere la possibilità
di immaginare un altro mondo, un’altra vita. “Tutti gli estremisti devono
essere considerati pericolosi” dice un rapporto sul campo, eppure sono gli
stessi dossier a dimostrare che John Lennon non ha commesso alcun reato. In
queste pagine non ci sono teorie della cospirazione, complotti o trame
invisibili. E’ l’ossessione di un governo spaventato, come nota Jon Wiener, da
un’altra, incomprensibile forma di potere: il potere della fantasia, dell’arte
e del rock’n’roll che ha provato a fermare in tutti i modi possibili, molti dei
quali (questa volta, sì) illegali. Non a caso, e in modo molto pertinente Jon
Wiener definisce questi dossier “il Watergate del rock’n’roll” perché hanno
scoperchiato il vaso di Pandora degli archivi federali americani, mettendo a
nudo la vera natura dell’operazione di intelligence costruita attorno alla
figura di John Lennon e gettando in campo preoccupanti interrogativi (visto
anche come è andata a finire, 8 dicembre 1980). L’altra battaglia per la
libertà è quella che ha dovuto sostenere John Wiener per ottenere l’accesso
agli archivi. Tra corsi e ricorsi, citazioni e sentenze che l’hanno visto
protagonista di una lunga causa legale contro l’F.B.I., non è una lettura
agevole, ma è la testimonianza di una lotta che che è e resta un caposaldo
nella libertà di informazione.
martedì 14 maggio 2013
John Steinbeck
Missione
compiuta è un libro anomalo, essendo
parte della propaganda che sosteneva lo sforzo bellico americano (prima e
durante) la seconda guerra mondiale. Una forma limitata e limitante,
soprattutto nel tono generale, che impone a John Steinbeck un margine di
manovra piuttosto limitato e ovvio. Il suo obiettivo è raccontare la nuova leva
di piloti, armieri, navigatori, marconisti, motoristi e mitraglieri che
compongono l’equipaggio dei bombardieri. Missione compiuta è didascalico e ripetitivo nel suo continuo tentativo
di inoculare alcuni concetti essenziali. E’ la funzione della propaganda e John
Steinbeck insiste su alcuni presunti ideali americani: l’efficienza delle
macchine, il lavoro di squadra, la ricerca della forma fisica, la dedizione al
compito, la fedeltà alla bandiera, lo spirito di corpo. Per la guerra è utile
anche un patriota scomodo come John Steinbeck che però deve attenersi a un
copione in gran parte già scritto, esaltando la nuova arma del cielo, le sue meraviglie
tecniche, l’implicita vocazione alla superiorità (non solo aerea) che deve
trasmettere. Anche in circostanze avverse, John Steinbeck trova l’occasione di
affermare uno stile e di usare le parole per esprimere, persino con una sorta
di profezia, dove avrebbe portato “una guerra senza un metodo o una tecnica
precisi, imperniata proprio su quella produzione in cui eccelliamo. Se fosse
toccato a noi scegliere il tipo di guerra da combattere, non avremmo potuto
trovarne una più adatta al nostro spirito nazionale. Perché questa è una guerra
di trasporti, di macchinari, di produzione di massa, di flessibilità e
inventiva, e in ciascuno di questi campi noi siamo stati pionieri se non
addirittura inventori”. Il rigido schema imposto dalla funzione primaria di Missione
compiuta non impedisce a John
Steinbeck di interpretare quello spirito pragmatico e combattivo (proprio in
quest’ordine) sviluppatosi proprio perché “la dimensione del nostro disagio era
la dimensione delle nostre energie”. I suoi limiti, così come quelli di
un’intera nazione, sono sorpassati dalla velocità degli eventi e del tempo e la
Missione compiuta da John
Steinbeck è tracciare una linea di demarcazione tanto netta quanto artefatta:
non soltanto con il nemico da annientare come vuole l’arte della guerra, ma
anche tra ciò che si deve ritenere americano e ciò che non lo è. La propaganda
non ammette dubbi, titubanze, incertezze, intemperanze. La macchina economica e
bellica (una pericolosa associazione John Steinbeck aveva compreso benissimo),
dai bambini che compongono i modelli di aereo destinati all’addestramento
all’ultima operaia che assembla ali e fusoliere fino all’armiere che sgancia
tonnellate di bombe sui bersagli, deve essere pronta e muoversi all’unisono
perché “adesso lo scopo è stato fissato; abbiamo un disegno e una direzione, e
una sorta di gioia selvaggia percorre l’intera nazione”. Missione compiuta: è un buon giorno per morire e la storia insegna che,
da allora, l’industria della guerra non si è più fermata.
martedì 7 maggio 2013
Kevin Powers
John
Bartle e Daniel Murphy combattono in Iraq una guerra che ormai asseconda i
cambi di stagione. Le operazioni militari hanno preso un ritmo annuale, neanche
fossero delle sagre, e tutta la vita, quello che rimane della vita, si svolge
secondo superstizioni, piccoli rituali, accorgimenti, regole e formalità che
aiutano a credere che esiste ancora una possibilità di tornare a casa sani e
salvi, più o meno interi. Una speranza remota, visto che tutti portano addosso
una scheda che, nella più plastica evidenza della burocrazia bellica, elenca i
possibili motivi della morte. Basta mettere una croce nel posto giusto: la
scheda è già firmata e non a caso perché, come dice Kevin Powers con la voce di
John Bartle, “non eravamo destinati a sopravvivere. In verità non eravamo
destinati a niente. La guerra prendeva ciò che poteva. Era paziente. Non si
curava degli obiettivi, dei confini, del fatto che ti volessero bene in tanti o
nessuno”. Nell’assurdità di una guerra nata dalle menzogne e condotta senza un
barlume d’idea, ormai né vinta né persa, anche la promessa fatta da John Bartle
alla madre di Daniel Murphy al momento della partenza per l’Iraq assume
l’indefinibile profilo di una bizzarria. Eppure era una richiesta elementare,
naturale: riportalo a casa. Non hanno nemmeno vent’anni, gli insegnano a
sparare e li spediscono ad Al Tafar, governatorato di Ninawa, dove il nemico
usa persino i cadaveri per farne trappole esplosive. Come dice il sergente Sterling,
bisogna restare psicopatici per sopravvivere, non bisogna nemmeno pensare che
esista ancora un posto chiamato casa ed è la conclusione a cui arriva anche
John Bartle: “Tutto, in quel momento, faceva pensare alla conclusione di un mal
concepito esperimento sull’inevitabilità. Ogni cosa era al suo posto, in attesa
di una pausa nel tempo, che l’origine di ogni impeto si placasse, e non
rimanessero altro che detriti da catalogare. Il mondo, per quel che mi era dato
da vedere, era sottile come carta”. Con Yellow Birds, Kevin Powers prova a dare uno spessore al vuoto e al
buio che lascia la guerra e il suo tentativo si aggrappa a una scrittura
“essenziale”, come ha scritto Dave Eggers, è vero, ma che spesso curva verso
riflessioni e deviazioni filosofiche prolisse e non del tutto risolte. Se ne
intuisce la necessità, senza dubbio, solo che la struttura di Yellow Birds, l’angoscia stessa che prova a comunicare dovrebbe
tenere conto, come scriveva Karl Von Clausevitz, che “la guerra è un atto di
violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza” e quindi
ogni rappresentazione presuppone il confronto con quella dimensione, con
quell’assurdità e con quella stupidità che qui ha solo la forma di una
promessa. Non è facile raccontarlo e Yellow Birds, nonostante i premi e gli auguri di Tom Wolfe e
Philipp Meyer, ci riesce solo in parte e a tratti. Kevin Powers è molto più
chiaro ed esplicito (e personale) quando John Bartle dice: “Non ero un eroe,
non ero un modello di niente, è già tanto che sia tornato a casa sulle mie
gambe e respirando”. Non serviva molto altro.
mercoledì 1 maggio 2013
Edith Wharton
Nel rileggere con La bellezza e l’orrore i destini travolti
dalla prima guerra mondiale, Peter Englund chiama “un universo emotivo” quello
che si è sviluppato trincea dopo trincea, battaglia dopo battaglia, massacro
dopo massacro. Il punto di vista della sua analisi, sottolineato dal titolo, è
molto coraggioso perché non si accontenta di descrivere lo spirito malefico
della guerra. Parte dal fatto che per un’intera generazione di giovani europei
all’alba del ventesimo secolo lo scoppio delle ostilità fu salutato come una
possibilità di cambiamento, persino eroico. Poi la guerra li ha privati di
tutto “della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell’umanità. Della
vita”. Non solo: La bellezza e l’orrore spiega come “la guerra mette a
disposizione pretesti, crea dicerie, interrompe le comunicazioni, semplifica i
ragionamenti, trasforma la violenza in norma”. L’incontro di Edith Wharton con
H. Macy Greer, un autista del Corpo di Soccorso Americano, da cui si genera Il
ritorno a casa
sembra condensare quell’atmosfera in un gomitolo di storie che si avvolgono una
dentro l’altra. Edith Wharton riprende le testimonianze del suo ospite e la sua
versione delle notizie dal fronte occidentale è uno sguardo dentro e attraverso
le tenebre, nelle pieghe emotive di incontri e addii che sono sempre estremi e
dolorosi, perché circondati da un’aura percettibile di mortalità, che assume
forme mutevoli perché “l’orrore non è certo diminuito, ma i nervi cominciano a
essere abituati a un simile spettacolo. Senza scordare che, in quei primi
giorni, i frammenti di esperienza ritorti a ciascuno parevano brandelli di
carne mandati in aria dalle granate. Adesso le cose che sembravano disgiunte
cominciano a collegarsi fra loro e dai campi di battaglia riemergono le ossa
rotte della storia”. L’aria nei campi e nei villaggi francesi è cupa e
apocalittica, ma Il ritorno a casa incanta con una scrittura sempre attenta,
misurata, piena di raffinata grazia. Eppure se la forma induce a pensare a una
delicatezza, a una particolare premura nello svolgere le parole, in Edith
Wharton è chiarissima la percezione con cui “la bellezza e l’orrore” si
attorcigliano. A suo tempo Wallace Stevens scriverà che “la guerra è solo una
parte di una totalità in tumulto” ed Edith Wharton sviluppa il suo tentativo di
fare ordine in un racconto limpido, elegante, fluido, distaccato nello stile
eppure appassionato nel ridisegnare i contorni atroci della prima guerra
mondiale. L’effetto è spiazzante perché Edith Wharton ricolloca minuscole
porzioni di esperienza umana, come se dovesse ricomporre uno specchio andato in
frantumi. “Questa guerra finirà per insegnarci a non aver paura dell’ovvio!” è
la rivelazione che concede Il ritorno a casa perché la dimensione
degli uomini è schiacciata dalla cupa immensità del conflitto, dall’angoscia
quotidiana di vite che sono accompagnate passo dopo passo a fraternizzare con
la morte, che sembra l’unico destino possibile, peraltro persino un sollievo
(alla fine, quando resta solo l'orrore).