La “solitudine pubblica” di Allen Ginsberg comincia a diventare evidente con la convention di Chicago del 1968, uno dei tanti momenti di sospensione della democrazia, per usare un eufemismo, in cui la repressione militaresca si è mostrata in tutta la sua ferocia, una volta sfumata la maschera della gestione dell’ordine pubblico. Convocato in tribunale come testimone della difesa, Allen Ginsberg trova il pulpito perfetto per spiegare, per precisare e per raccontare quello che le pacifiche manifestazioni non hanno potuto per via dei manganelli e dei gas lacrimogeni. Con lui, ad affrontare i giudici ci sono gli imputati, che non perdono l’occasione per urlare le proprie invettive, come Bobby Seale che, prima di venire imbavagaliato, riuscì a dire: “Prima avete voluto che fossimo dei bravi tedeschi e non parlassimo male di questo decennio. Ora volete che ci comportiamo come bravi ebrei e andiamo al silenzio al macello. Questo processo è un’accusa contro di voi, non contro di noi. Chiunque abbia buon senso si rende conto che questo processo sarà il punto di partenza per la nuova generazione”. Non è l’unico a forgiare quello scomodo paragone, visto che anche Jerry Rubin proporrà un parallelo simile: “Tutto ciò che è accaduto nella Germania nazista era legale. Avvenne tutto in tribunali come questi, mediante giudici che facevano rispettare la legge. Questa è la cosa più simile alla Germania nazista che io abbia mai visto”. Quando tocca ad Allen Ginsberg la sua Testimonianza a Chicago diventa un’apologia di tutta una generazione che stava soltanto cercando di “metter su qualcosa di veramente bello che avrebbe illuminato tutti, nel senso che avrebbe innalzato lo spirito di tutti e mostrato realmente ciò che stavamo provando nella felicità invece che nell’orrore che ci circondava”. Dallo scranno del tribunale, con plastica sincerità, illumina avvocati e procuratori sull’essenza della meditazione, sulla forza del rock’n’roll, sulla specifica natura della sua poesia e delle sue visioni e, riportando un intervento di Abbie Hoffman, si chiede “che cosa si potrebbe fare per innalzare o migliorare il tono generale della trappola nella quale ci siamo sentiti intrappolati a misura che la popolazione è cresciuta e la politica è diventata sempre più violenta e caotica”. Premesso che la domanda è ancora pertinente oggi come allora va ricordato il passaggio fondamentale della sua Testimonianza a Chicago, quando disse: “La maggior parte della nostra consapevolezza poiché guardiamo continuamente immagini alla televisione e ascoltiamo parole, leggiamo giornali, parliamo in tribunali come questo, la maggior parte della nostra consapevolezza è piena di linguaggio, con una specie di reale orgoglio dietro l’orecchio, un continuo blaterare che in realtà ci impedisce di respirare profondamente nel corpo e di sentire con più finezza e dolcezza le sensazioni che in realtà noi abbiamo gli uni per gli altri come persone piuttosto che come macchine parlanti”. In tempi in cui l’indignazione è inevitabile quando indispensabile, forse occorre ripartire da qui.
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