E’ con Il nuotatore, ritratto di un personaggio che vuole attraversare la contea solcando le piscine e si scontra, alla fine, con una casa disabitata, metafora di un capolinea evidente e inevitabile che John Cheever traccia un’ambiziosa cartografia di quell’ambiente suburbano, lo stesso che hanno raccontato Richard Yates (con più acidità) e Richard Ford (con più dolcezza) che costituisce un luogo della mente in cui è capace di navigare e affrontare con inaudita precisione. Gli Halloran, i Westerhazy, i Bunker, gli Hammer, gli Howland, i Crosscup, i Graham, i Lear, i Welcher, i Lindley, i Levy, i Towers, i Merrill, i Sachs, i Clyde: l’elenco fornisce le coordinate di un paesaggio in cui ogni piccola variazione del tran tran quotidiano diventa una dramma. Se in Un giorno qualsiasi, la caccia a uno sfortunato procione si trasforma persino in qualcosa di epico, la mancanza di un elettrodomestico (il surgelatore in Un giorno qualsiasi) o la sua presenza (la radio, ovviamente, in Una radio straordinaria) determina la qualità della vita dei personaggi. Una radio straordinaria può andare bene fino a quando trasmette Mozart, Chopin, Beethoven (manca un po’ di rock’n’roll, bisogna dirlo), ma quando intercetta tra le onde dell’etere (attraverso una commedia) dialoghi che sembrano gli stessi dei protagonisti diventa un pericolo e nelle domande di Irene la paura di identificarsi è tangibile: “La vita è troppo spaventosa, troppo sordida e angosciosa. Ma noi non siamo mai stati come loro, vero tesoro? Lo siamo stati? Voglio dire, noi siamo sempre stati buoni e sensibili e affettuosi l’uno con l’altro, non è vero? E abbiamo due bambini, due bellissimi bambini. La vita non sordida, vero che non lo è, tesoro?”, e la risposta del marito è ambiguità e ovvietà coincidono al millimetro ed è in questa chirurgica precisione tutta la forza di John Cheever. Altrimenti compresa fino in fondo dall’immancabile Fernanda Pivano che nella prefazione ha scritto: “In questo clima sofisticato ha continuato a descrivere il mondo che lo circondava, da moralista ostinato, generoso, elegante, divertito, interessato al perbenismo e alla rispettabilità dei suoi concittadini. Con la sua prosa lapidaria e la sua narrazione raffinata e sempre più compressa, ha raccontato storie di feste sui prati, o fragili avvenimenti di pendolari, o avventure di persone apparentemente tranquille, di abitudini serene, pacate, che parevano felici. In realtà nei suoi personaggi, la serenità era soffocata, la tranquillità repressa, la felicità artificiale, e questo rendeva più commoventi le vicende conformiste dei suoi benestanti delusi, frustrati, dolenti; in realtà della borghesia descriveva i problemi oltre che i costumi in racconti tristi, intrisi di pessimismo e carichi di una disperazione tanto più drammatica quanto più immersa sotto la superficie levigata delle false apparenze”. L’analisi non fa una piega ed è la traduzione puntuale di quello che John Cheever chiamava “l’amore per la luce e la decisione di tracciare una catena morale dell’essere”. Missione compiuta.
giovedì 30 giugno 2011
John Cheever
John Fante
martedì 28 giugno 2011
Philip Roth
C’è una distanza siderale tra il più recente Philip Roth e quello di Il teatro di Sabbath, ritratto volitivo, esuberante e scoppietante di un satiro genialoide. Eppure molte delle radici dei toni crepuscolari dei suoi ultimi romanzi arrivano proprio da qui, perché diventa chiaro che, primo, “la gente va in pezzi, così. E invecchiare non aiuta” e, secondo, “non si possono dare appuntamenti al tramonto della vita”. Rivisto in prospettiva, Il teatro di Sabbath è uno snodo essenziale della narrativa di Philip Roth. Scriveva all’epoca il critico Frank Kermode: “Mi sembra essenziale che venga compresa la serietà delle immagini trasgressive di Roth: egli ride della vita e della morte con serietà. In questo nuovo libro la vita viene presentata come una callosità ribelle che si oppone alla morte e ai suoi araldi, la vecchiaia e l’impotenza. La soluzione possibile è una sola, la vita non può vincere contro l’ultimo nemico. Nel migliore dei casi può mettere in scena uno spettacolo scandalosamente buono”. Non si poteva dire meglio: è l’effetto che fanno le peripezie di Mickey Sabbath, un personaggio indimenticabile anche perché “se non fossero esistiti la guerra, la follia, la perversione, la morbosità, l’imbecillità, il suicidio e la morte, era probabile che lui sarebbe stato molto più in forma”. Come si può leggere nel romanzo di Philip Roth, riesce a cavarsela in modo egregio, prendendosi spesso una vacanza dal malcontento, perché tanto “chiunque abbia un un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perché non ne esistono di altro genere. Non è proprio un fatto personale”. Con Philip Roth non è mai un fatto personale e le regole dell’attrazione valgono per un’intera nazione anche quando suonano false in modo tanto evidente quanto palese. Come dice Drenka, all’inizio di Il teatro di Sabbath: “Io? A me non interessava la politica. Ero come i miei genitori. Ai tempi della vecchia Jugoslavia, quando c’era il re e tutto il resto, prima del comunismo, loro volevano bene al re. Poi è arrivato il comunismo, e viva il comunismo. A me piaceva l’avventura. L’America mi pareva così fantastica e affascinante, e così tremendamente diversa. America! Hollywood! Soldi! Perché me ne sono andata? Ero una ragazza: andavo dove ci si divertiva di più”. Anche se da molto tempo, ormai, Mickey Sabbath non vive più i furori e le urgenze della gioventù si prepara al grande passo con una perfida vena di ironia, svolazzando, grazie alle superbe escursioni stilistiche di Philip Roth, da un volo pindarico all’altro, una serie di colpi di teatro regolati da quella che è “la legge della vita: fluttuazione. Per ogni pensiero, un pensiero opposto, per ogni impulso, un impulso contrario. Non c’è da stupirsi se uno o impazzisce e muore o decide di scomparire. Troppi impulsi, e questo non è neanche un decimo della storia”. In effetti, esagerato ed eccentrico com’è, Il teatro di Sabbath è un Big Bang i cui effetti sono ancora in gran parte sconosciuti.
Thomas Wolfe
lunedì 27 giugno 2011
Neil Smith
Billy Lafitte, il protagonista di Yellow Medicine, è uno vicesceriffo con una percezione piuttosto vaga della linea di demarcazione della legalità. In quelle condizioni un posto vale l’altro anche se ben presto scopre che una smalltown del Midwest ha tutti i suoi segreti e i suoi dark places che ben si adattano alle regole che s’inventa per delimitare il suo territorio di caccia. “Ero in esilio dal mondo reale” dice all’inizio di Yellow Medicine per chiarire la sua condizione esistenziale e nel passaggio che l’ha portato dal Mississippi sconvolto dagli uragani al piatto e monotono Minnesota qualcosa si è perso, è rimasto lontano o nascosto per sempre nelle pieghe della tempesta: la moglie (da cui è separato), i figli, uno o due cadaveri segnano il suo passato e il nuovo paesaggio non lo aiuta certo a ritrovarli e a ritrovarsi. Anzi, è un elemento disorientate perché “certe volte il Minnesota poteva essere sconvolgente, nelle sue bellezze naturali, ma un istante dopo ti ritrovavi a chiederti se non fosse stata soltanto una crudele illusione ottica. Avevo sentito dire che bastava spingersi verso nord per trovare diecimila laghi e foreste e una natura selvaggia che ti mozza il respiro. Il guaio era che la parte meridionale dello stato sembrava dovessero ancora completarla”. Si tratta di luoghi gelosi della propria indipendenza, compresa quella di elaborarsi le loro metanfetamine, come già in un’altra era venivano raffinati whiskey da combattimento, e dove il melting pot americano si è fermato tra le ruvide origini scandinave dei pionieri e l’ostica (e mai del tutto domata) resistenza sioux. Questo è l’humus in cui il moderno e globale capitalismo fa irruzione a Yellow Medicine con una miscela proibitiva di ambizioni strategiche sul mercato della droga destinate a finanziare operazioni terroristiche su larga scala. Figurarsi come Billy Lafitte, uno abituato al massimo a studenti ubriachi o a mariti che hanno perso la via di casa, può affrontare una formazione con ramificazioni arabe e orientali e un’organizzazione militare e micidiale. I suoi modi operativi sono molto distanti dalla normale routine dell’ufficio dello sceriffo ed è lui stesso ad ammetterlo: “Lo so, cosa state pensando. Che sono un figlio di puttana. Un autentico stronzo. L’unica mia risposta è che non obbligo nessuno a fare qualcosa che non desidera. Sono pronto a rischiare l’osso del collo ventiquattr’ore al giorno, per proteggere i miei concittadini, quindi se mi capita di andare ben oltre il mio dovere per dare una mano a una ragazza in difficoltà, il modo in cui lei decide di mostrarmi la sua gratitudine non è affar mio”. Billy è fatto così, inutile negarlo, e non è l’eroe di Yellow Medicine, il cavaliere senza macchia e senza paura (anzi), ma come un folle deus ex machina risolve la storia a modo suo. Neil Smith non concede nulla: il ritmo è denso, duro e feroce e Yellow Medicine è azione e reazione allo stato puro, crudo e genuino come un grande film di serie b, che in fondo sarebbe il suo giusto destino.
domenica 26 giugno 2011
Henry Miller
David Leavitt
All’inizio era tutto meno di zero: anni spropositati di abbagli, colori sparati in faccia, divertimento a tutti i costi, prendi e porta via. Una filosofia che rispecchiava la politica e l’economia dell’epoca, che glorificava il nulla ed era destinata per la sua stessa conformazione, essendo soltanto un’effervescente bolla, ad esplodere. In questo contesto, è stato funzionale allo scopo, sbattere tre giovanissimi scrittori sulle prime pagine dei giornali sotto l’etichetta forzosa e limitante di minimalisti, che riletta oggi vale poco o niente. Con la loro prosa a raccontare l’effimero e il trasparente, Bret Easton Ellis, Jay McInerney e David Leavitt sembravano destinati ad un successo folgorante (e all’inizio fu veramente così) e infinito, ma poi la vita, la vita vera, cominciò a presentare le sue credenziali, e quando quegli anni passarono, i loro nomi diventarono, sì, una consuetudine negli scaffali delle librerie, ma ben presto del falò delle vanità rimasero soltanto il ricordo delle scintille iniziali e il dubbio che fosse soltanto un fuoco d’artificio. Dei tre, David Leavitt è quello che ci ha rimesso più di tutti: Bret Easton Ellis ha ritrovato tutte le mille luci di New York in quel capolavoro dell’assurdo che è American Psycho e Jay McInerney ha imparato le regole dell'attrazione da Hemingway e Carver e forse è rimasto il più autorevole osservatore della compagnia ma lui, l’elegante narratore di Ballo di famiglia e di La lingua perduta delle gru sembra essere rimasto prigioniero della nostalgia e dei cliché del giovane ricco, viziato e vuoto, una parola che andava forte ai tempi del suo esordio. In Arkansas questa incapacità di lasciarsi alle spalle quei temi, ormai diventati luoghi comuni è plateale. Dei tre racconti che lo compongono, solo la storia di dolore e di amicizia che c’è dentro Saturn Street riesce in qualche modo a comunicare un po’ di calore, un po’ di emozione. Negli altri David Leavitt non è capace di districarsi da un formato ormai schematico, dalla prosa colloquiale, da quel mood freddino e sopra le righe che, se vent’anni fa stupiva tutto e tutti, a distanza nel tempo suona monotono e ripetitivo. Con un po’ di buona volontà si possono salvare le descrizioni paesaggistiche e culinarie di Nozze di legno (un titolo banale per un racconto ambientato tra le colline della Toscana), ma il resto è davvero troppo poco anche per uno che si chiama David Leavitt: la trama (un classico intreccio amoroso basato su una canonica sequenza di equivoci e scambi di ruoli) non ha ambizioni particolari, i dettagli sfuggono, i personaggi sono confusi, con ogni probabilità quanto e come il loro autore. Meglio lasciar perdere il racconto iniziale, L’artista dei saggi di fine trimestre (autocompiacimento allo stato puro) e fare il punto della situazione: Arkansas vale solo per Saturn Street, che è davvero degno del talento di David Leavitt, ma un racconto su tre è una media che forse poteva andava bene un secolo fa. Oggi, non basta nemmeno per cominciare.
venerdì 24 giugno 2011
Charles Bukowski
Karl Marlantes
Il Matterhorn (che poi sarebbe il monte Cervino) è il nome dato dai topografi militari americani a una cima strategica in una zona di confine tra il Vietnam e il Laos. Uno dei tanti punti sulle mappe da combattimento per cui, all’alba del 1969, generali e colonnelli avrebbero fatto qualsiasi cosa, a partire con lo spedire al massacro i propri soldati. In Vietnam “la guerra era diventata un affare troppo tecnico e complesso, e quella guerra in particolare era diventata troppo politica” visto che ricalcava, in terra straniera, le dinamiche dell’intera America. Una guerra di attrito, più che per il controllo del territorio: il body count dei nemici è artefatto; quello dei marines è impietoso. Le colline disseminate di cadaveri, la nebbia, i monsoni, la malaria: il paesaggio viene dipinto all’infinito, uno strato dopo l’altro, sempre uguale, e un sudario di morte ricopre tutto e tutti: alla fine “la giungla e la morte erano le sole cose pulite di quella guerra”. Karl Marlantes non perde un attimo, nemmeno una riga per esprimere una sua valutazione, un’opinione: Matterhorn è tutto azione perché è l’azione che conta in guerra, non il movente. Illustra, racconta e spiega, anche a costo di ripetersi (spesso), i meccanismi brutali, le contraddizioni, le diatribe, gli errori e gli atti di coraggio che portano i marines a lottare per ogni singolo centrimetro di fango e di merda. Lo stesso protagonista di Matterhorn, Mellas (Wayno è il nome che viene pronunciato di rado), soffre la sindrome del sopravvissuto. Ha visto i suoi migliori uomini, i suoi migliori amici, morire senza nemmeno poter chiedere aiuto. Ha subito ordini e contrordini (o ordini frammentari, che è più specifico e rende meglio l’idea). Deve fare attenzione alle tensioni razziali, sempre più evidenti e pericolose nonché ambigue, infine. Ed è costrettto a scoprire che “vivere, soccombendo alla follia, era l’estrema rinuncia a qualsiasi forma di orgoglio”. Karl Marlantes ha modo di descrivere in maniera inequivocabile i movimenti, gli schemi, le soluzioni e gli istinti, gli improvvisi e le deviazioni che costituiscono il caso e insieme il destino in guerra. Molte immagini sembrano provenire da visioni del Vietnam piuttosto che dal Vietnam stesso. La tigre assassina da Apocalypse Now, l’osso spezzato sulla roccia dal Cacciatore, le dinamiche tra graduati e soldati da Platoon, i colpi d’artiglieria sugli elefanti da Nell’esercito del faraone di Tobias Wolff e l’elenco potrebbe continuare un altro bel po’ perché Matterhorn arriva buon ultimo a riassumere anni e anni di infiniti tormenti. Come tutto il Vietnam, anche Matterhorn è il frutto malato di un’ossessione e assembla tutte le esperienze della guerra, certo partendo dalla realtà vissuta da Karl Marlantes, ma trasformandola in un monito. E’ compreso tra gli acronimi RHIP (il rango ha i suoi privilegi) e RIP, anche se nella giungla nessuno riposa in pace perché in Vietnam “non c’era modo di tappare i buchi causati dalla morte” che è il modo con cui Karl Marlantes in Matterhorn dice, compresa l’amarissima sequenza finale, che in guerra non c’è mai scampo. Nemmeno per chi si salva.
Joseph McElroy
martedì 21 giugno 2011
Bernard Malamud
Personaggi che hanno davanti i rimasugli senza vita di vecchi sogni e a cui restano poche pretese, che però difendono fino alla morte, come Kessler, l’inquilino di Lamento funebre. Personaggi rosi da qualche tormento (quello della scrittura in particolare) come il protagonista che insegue La ragazza dei miei sogni. Spiccioli di vite, nel Lower East Side, dove passano le giornate in piccoli negozi, luoghi pubblici in cui prende forma, attraverso umili lavori che vanno avanti per inerzia, una lingua che si snoda in frasi brevi, secche e brucianti e dialoghi che non lasciano speranze. Adatta alla durezza degli eventi, dei tempi e dei luoghi. Anche in scenari diversi da New York, come i paesaggi italiani, il lago Maggiore, Roma, “Roma, città di perpetua sorpresa, gli aveva fatto una brutta sorpresa”, i personaggi di Bernard Malamud sono attorcigliati alle proprie sconfitte, a partire dalla famiglia di Ecco la chiave, cronaca di agghiaccianti “vacanze romane”. L’amarezza è il tratto comune a tutti e un volto dopo l’altro i protagonisti delle short stories di Bernard Malamud vanno a formare un’umanità dolente, affranta, indecisa, tenuta insieme dal dolore, imprigionata negli errori e nei sotterfugi. Dalla bambina cleptomane di Abbi pietà al finto studioso di Un’estate di letture, Il barile magico è una fonte inesaurible di storie che sono l’elemento primario della scrittura di Bernard Malamud: “Storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazione”. D’altra parte, sostiene sempre Bernard Malamud “le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro”. Per lui, per gli uomini e le donne che allinea Il barile magico il tempo è spesso declinato al passato perché, come dice Isabella, alias La dama del lago, “Noi siamo ebrei. Il mio passato ha un senso, per me. Faccio tesoro di ciò per cui ho sofferto”. L’esistenza tutta è una concessione limitata, e anche se “il compimento è nel futuro”, Il barile magico brucia le storie nell’irrimediabile presente mettendo all’angolo tanto i personaggi quanto il lettore, due figure che nelle sue storie spesso coincidono. Se, nella fiction, la lettura diventa una consolazione (come succede con Manischevitz, il sarto in L’angelo Levine: “Non leggeva veramente, perché i suoi pensieri erano altrove; però i caratteri stampati offrivano ai suoi occhi un comodo luogo di riposo, e qualche parola qua e là, quando lui si concedeva di comprenderne il senso, aveva l’effetto momentaneo di aiutarlo a dimenticare le sue disgrazie”) in realtà la scrittura è ruvida, aspra, una frustata dopo l’altra: usando la velocità delle short stories in modo perfetto, senza sprecare una parola, Bernard Malamud non ha esitazioni a trascinare il lettore nei bassifondi della vita.
Jack Kerouac
lunedì 13 giugno 2011
Don DeLillo
La storia dell’amore tra Lee Oswald, il più famoso caprio espriatorio nella storia della civiltà occidentale, e la moglie Marina è il primo strato di un romanzo che si sviluppa per accumulo e sedimentazione. Partendo proprio dagli aspetti più intimi e personali della biografia del principale protagonista dell’omicidio di JFK, Don DeLillo spalma Libra su più livelli. Il primo è una lettura delle teorie della cospirazione molto lucida e pertinente che parte da un assunto elementare enunciato così da Don DeLillo: “C’è qualcosa che non ci dicono. Qualcosa di cui non siamo a conoscenza. C’è qualcosa di più. C’è sempre qualcosa di più. E’ di questo che è fatta la storia. E’ la somma totale di tutte le cose che non ci dicono”. La costruzione stessa della personalità di Lee Oswald, un moltiplicarsi di contraddizioni e di passaggi oscuri è una rete in cui è facile rimanere impigliati nel vagheggiare di dietrologie, ma come ha detto Don DeLillo in un’intervista con Fernanda Pivano: “In realtà il complotto mi importava soprattutto per inserire nel libro un elemento di violenza e di inesplicabilità, di imprevedibilità del pericolo moderno, la situazione di gente che vive al limite del terrore in un mondo che ha perduto il senso di una realtà coerente”. Qui si accede ad un piano più inclinato: Lee Oswald “si sentiva parte di qualcosa che scorre giù per il mondo” e l’epigrafe di Libra è la sua personale versione dell’americana e costituzionale ricerca della felicità: “La felicità non si fonda su noi stessi, non consiste in una piccola casa, nel prendere e nel ricevere. La felicità è partecipare a quella lotta dove non esiste confine fra il nostro mondo personale e quello degli altri”. Scegliere una causa e comprare un’arma collimano quell’idea di democrazia che vale “il diritto di appartenere a una minoranza senza essere soppresso”. Quando Lee Oswald si trova nel posto sbagliato al momento giusto il suo diario, la sua biografia, i suoi ascendenti (Libra è il suo segno zodiacale) collassano con l’ambizione di entrare nella storia, di lasciare un segno indelebile del proprio passaggio terreno perché “avvenimenti potenti generano un sistema proprio di incoerenze. I fatti semplici eludono il riconoscimento di autenticità”. Minuscolo granello in un misterioso turbinìo di tossin storiche, Lee Oswald viene rivelato da Don DeLillo nella cornice del più emblematico loser e, come tale, diventa un modello, se non proprio un archetipo di un fallimento che ha nel culto delle Colt e delle Smith & Wesson la sua espressione di fede, così come si legge nella conclusione di Libra: “Dopo Oswald, agli uomini in America non viene più richiesto di condurre una vita di calma disperazione. Fai domanda per una carta di credito, compri una pistola, giri per la città, i sobborghi e le strade dei negozi, anonimo, anonimo, in cerca dell’occasione per sparare al primo volto famoso, paffuto e vuoto, solo per fare sapere alla gente che lì fuori c’è qualcuno che legge i giornali”. Un manuale di sopravvivenza.
mercoledì 8 giugno 2011
Stephen King
martedì 7 giugno 2011
Grace Paley
Grace Paley è stata un caso unico nella letteratura americana. I suoi racconti e le sue poesie hanno il suono cristallino e disordinato della chitarra del giovane Dylan e una capacità di incidere nella pagina con tagli secchi, netti e precisi e senza un filo di retorica, nemmeno per sbaglio. Pagine in apparenza rarefatte e scarnificate eppure quanto mai dense: la scrittura raffinata, le parole tagliate come diamanti grezzi, non una sprecata, spiccano sempre, senza esitazioni. Ma è la voce è nitida, distinta, accorata, come se venisse dalla stanza accanto, una porta lasciata aperta, o emergesse da una lettera confidenziale giunta all’improvviso. Una voce amica destinata a restare e a essere condivisa, che nasce a vive il suo essere americano in modo chiaro e forte come diceva la stessa Grace Paley: “Sono un’americana. Non provo orgoglio patriottico né nulla del genere, ma d’altra parte sono molto interessata a questo paese. Mi interessa la sua storia, e sento che contiene alcune idee di valore che hanno cambiato la vita a tanta gente. Penso ai miei genitori e a tutti gli altri emigranti che sono arrivati qui: sono arrivati per una ragione, e in un modo o nell’altro sono stati soddisfatti”. In Fedeltà, le differenze tra racconto e poesia sono molto sfumate e le distanze tra uno e l’altra sono ridotte a un nulla, come se i due linguaggi fossero intercambiabili. “A scuola studiavo poesia, ecco come ho imparato a scrivere. Scrivo racconti in questo modo perché prima scrivevo poesie” dice ancora Grace Paley e ogni pagina è un’istantanea dai contorni limpidi, un fotogramma inciso nel paesaggio di New York, la registrazione furtiva di un dialogo tra sconosciuti, un appunto sulle stagioni tra la vita e la morte. Se la trama è impalpabile, poco importa perché la risoluta e combattiva Grace Paley aveva un’idea solida e concreta di come si racconta una storia: “Tutti dicono che i miei racconti non hanno trama, e questa cosa mi manda fuori di testa. La trama non è niente; la trama è solamente tempo, una linea temporale. Tutte le nostre storie hanno una linea temporale. Una cosa succede, poi ne succede un’altra”. In Fedeltà, un esempio illuminante è Ho incontrato una donna in aereo, una short story di un centinaio di parole illuminante: c’è tutto nel breve e concentrato spazio di due pagine scarse. Le parole appartengono a una lingua metodica e melodiosa a cui bastano poche frasi per delineare tutta la storia e la grazia della scrittura di Grace Paley è indiscutibile come se avesse riportato all’essenza della letteratura, ovvero quella letteratura che “non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere”. A questa definizione, in sé spiazzante, va aggiunta la fedeltà alle idee primarie e persino un risvolto etico, non si può dire altrimenti, perché Grace Paley sosteneva che “è responsabilità del poeta imparare la verità da chi non ha potere”. Solo per questo merita di essere scoperta e riscoperta, letta e riletta.