C’è una distanza siderale tra il più recente Philip Roth e quello di Il teatro di Sabbath, ritratto volitivo, esuberante e scoppietante di un satiro genialoide. Eppure molte delle radici dei toni crepuscolari dei suoi ultimi romanzi arrivano proprio da qui, perché diventa chiaro che, primo, “la gente va in pezzi, così. E invecchiare non aiuta” e, secondo, “non si possono dare appuntamenti al tramonto della vita”. Rivisto in prospettiva, Il teatro di Sabbath è uno snodo essenziale della narrativa di Philip Roth. Scriveva all’epoca il critico Frank Kermode: “Mi sembra essenziale che venga compresa la serietà delle immagini trasgressive di Roth: egli ride della vita e della morte con serietà. In questo nuovo libro la vita viene presentata come una callosità ribelle che si oppone alla morte e ai suoi araldi, la vecchiaia e l’impotenza. La soluzione possibile è una sola, la vita non può vincere contro l’ultimo nemico. Nel migliore dei casi può mettere in scena uno spettacolo scandalosamente buono”. Non si poteva dire meglio: è l’effetto che fanno le peripezie di Mickey Sabbath, un personaggio indimenticabile anche perché “se non fossero esistiti la guerra, la follia, la perversione, la morbosità, l’imbecillità, il suicidio e la morte, era probabile che lui sarebbe stato molto più in forma”. Come si può leggere nel romanzo di Philip Roth, riesce a cavarsela in modo egregio, prendendosi spesso una vacanza dal malcontento, perché tanto “chiunque abbia un un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perché non ne esistono di altro genere. Non è proprio un fatto personale”. Con Philip Roth non è mai un fatto personale e le regole dell’attrazione valgono per un’intera nazione anche quando suonano false in modo tanto evidente quanto palese. Come dice Drenka, all’inizio di Il teatro di Sabbath: “Io? A me non interessava la politica. Ero come i miei genitori. Ai tempi della vecchia Jugoslavia, quando c’era il re e tutto il resto, prima del comunismo, loro volevano bene al re. Poi è arrivato il comunismo, e viva il comunismo. A me piaceva l’avventura. L’America mi pareva così fantastica e affascinante, e così tremendamente diversa. America! Hollywood! Soldi! Perché me ne sono andata? Ero una ragazza: andavo dove ci si divertiva di più”. Anche se da molto tempo, ormai, Mickey Sabbath non vive più i furori e le urgenze della gioventù si prepara al grande passo con una perfida vena di ironia, svolazzando, grazie alle superbe escursioni stilistiche di Philip Roth, da un volo pindarico all’altro, una serie di colpi di teatro regolati da quella che è “la legge della vita: fluttuazione. Per ogni pensiero, un pensiero opposto, per ogni impulso, un impulso contrario. Non c’è da stupirsi se uno o impazzisce e muore o decide di scomparire. Troppi impulsi, e questo non è neanche un decimo della storia”. In effetti, esagerato ed eccentrico com’è, Il teatro di Sabbath è un Big Bang i cui effetti sono ancora in gran parte sconosciuti.
Complimenti per l'interessante articolo. Se l'autore mi legge, chiedo cortesemente: l'ultima parola: conosciuti (come sta scritto) o sconosciuti? Grazie.
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