All’inizio era tutto meno di zero: anni spropositati di abbagli, colori sparati in faccia, divertimento a tutti i costi, prendi e porta via. Una filosofia che rispecchiava la politica e l’economia dell’epoca, che glorificava il nulla ed era destinata per la sua stessa conformazione, essendo soltanto un’effervescente bolla, ad esplodere. In questo contesto, è stato funzionale allo scopo, sbattere tre giovanissimi scrittori sulle prime pagine dei giornali sotto l’etichetta forzosa e limitante di minimalisti, che riletta oggi vale poco o niente. Con la loro prosa a raccontare l’effimero e il trasparente, Bret Easton Ellis, Jay McInerney e David Leavitt sembravano destinati ad un successo folgorante (e all’inizio fu veramente così) e infinito, ma poi la vita, la vita vera, cominciò a presentare le sue credenziali, e quando quegli anni passarono, i loro nomi diventarono, sì, una consuetudine negli scaffali delle librerie, ma ben presto del falò delle vanità rimasero soltanto il ricordo delle scintille iniziali e il dubbio che fosse soltanto un fuoco d’artificio. Dei tre, David Leavitt è quello che ci ha rimesso più di tutti: Bret Easton Ellis ha ritrovato tutte le mille luci di New York in quel capolavoro dell’assurdo che è American Psycho e Jay McInerney ha imparato le regole dell'attrazione da Hemingway e Carver e forse è rimasto il più autorevole osservatore della compagnia ma lui, l’elegante narratore di Ballo di famiglia e di La lingua perduta delle gru sembra essere rimasto prigioniero della nostalgia e dei cliché del giovane ricco, viziato e vuoto, una parola che andava forte ai tempi del suo esordio. In Arkansas questa incapacità di lasciarsi alle spalle quei temi, ormai diventati luoghi comuni è plateale. Dei tre racconti che lo compongono, solo la storia di dolore e di amicizia che c’è dentro Saturn Street riesce in qualche modo a comunicare un po’ di calore, un po’ di emozione. Negli altri David Leavitt non è capace di districarsi da un formato ormai schematico, dalla prosa colloquiale, da quel mood freddino e sopra le righe che, se vent’anni fa stupiva tutto e tutti, a distanza nel tempo suona monotono e ripetitivo. Con un po’ di buona volontà si possono salvare le descrizioni paesaggistiche e culinarie di Nozze di legno (un titolo banale per un racconto ambientato tra le colline della Toscana), ma il resto è davvero troppo poco anche per uno che si chiama David Leavitt: la trama (un classico intreccio amoroso basato su una canonica sequenza di equivoci e scambi di ruoli) non ha ambizioni particolari, i dettagli sfuggono, i personaggi sono confusi, con ogni probabilità quanto e come il loro autore. Meglio lasciar perdere il racconto iniziale, L’artista dei saggi di fine trimestre (autocompiacimento allo stato puro) e fare il punto della situazione: Arkansas vale solo per Saturn Street, che è davvero degno del talento di David Leavitt, ma un racconto su tre è una media che forse poteva andava bene un secolo fa. Oggi, non basta nemmeno per cominciare.
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