Le mappe dei miei sogni si rivela un viaggio troppo lungo perché se l’idea di partenza, quella di un piccolo hobo che parte alla scoperta del mondo dopo averlo disegnato e/o immaginato nei suoi diagrammi, è brillante e arguta, nel suo evolversi diventa sempre più introspettiva e autorefenziale. Nonostante la centralità di un episodio violento, dalle tinte fosche ed enigmatiche, Le mappe dei miei sogni sono costellate di variazioni sul tema ed estrapolazioni criptiche che alla prima battuta sono affascinanti, alla seconda fanno riflettere, alla terza generano qualche inevitabile perplessità e alla quarta, cioè alla fine, suonano noiose. Il livello della scrittura è elevato e come se non bastasse l’inedito contorno iconografico è prezioso, ma in sé svela anche i limiti e l’approssimazione della storia. A dodici anni T.S. Spivet non ha soltanto una fervida immaginazione, ma anche una visione filosofica del mondo visto che, nonostante la giovane età, aveva già imparato che “la rappresentazione non deve essere confusa con la realtà, anche che, in un certo senso, lo scarto è ciò che rende le rappresentazioni così significative: la distanza tra una mappa e il territorio che descrive ci lascia lo spazio per respirare e capire in quale punto ci troviamo”. La distanza è fondamentale e la sua personalissima cartografia cerca di colmarle in ogni direzione: con il padre (un vero e rude cowboy) e con la madre (una scienziata con cui dovrebbe avere qualche affinità in più e che invece sente algida e lontana) nonché con il fratello, ucciso da un incidente con un’arma da fuoco. Per un bambino, per quanto prodigioso, sono troppe le coordinate da far combaciare e Le mappe dei miei sogni sono piene dei suoi fallimenti, tanto che ben presto se ne accorge pure lui: “C’è qualcosa, nella misurazione della distanza tra un qui e un là, che ridimensiona il mistero di ciò che si nasconde nel mezzo, e per un bambino con una limitata esperienza empirica il mondo ignoto che poteva celarsi tra il qui e il là poteva essere terrificante. Come molti bambini, io non ero mai stato là. Ero stato a malapena qui”. Quando intercetta una telefonata da Washington per cui i suoi disegni si meritano un premio dello Smithsonian fugge a bordo di un treno per raggiungere l’agognato riconoscimento. Fin qui tutto funziona a meraviglia, almeno se si conoscono le eccentriche collezioni di Harry Smith o soltanto qualcuna delle canzoni dai Basement Tapes di Bob Dylan, poi il viaggio, che dovrebbe essere una rivelazione diventa un elenco di annotazioni e voli pindarici che funzionano a scartamento ridotto. Arrivati al giro di boa della metà e in modo significativo nello nello scenario urbano delle periferie di Chicago, sembrano accorgersee anche lo stesso Reif Larsen e, per lui, T.S. Spivet che dice: “ero rimasto solo, perduto nella solitudine sfilacciata di quella città senza fine”. Una sensazione condivisa dal lettore, nonostante i fuochi d’artificio urbani e gli ultimi, ovvi tentativi di sorpresa del finale.
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