Nato in Canada nel 1936, da una famiglia di radicatissime origini scozzesi (verrebbe da dire: un clan) Alistair McLeod è un narratore dal talento straordinario che è stato scoperto con la raccolta di racconti Il dono di sangue del sale perduto. Titolo un po’ complicato che potrebbe far pensare a certe derivazioni new age, ma che invece vive sull'onda di antiche canzoni, dei paesaggi marini di Cape Breton e Terranova, della vita agra e rurale in un territorio duro, aspro, a volte, spietato. Racconti che sono stati celebrati da Joyce Carol Oates (“Nella prosa limpida di Alistair McLeod si ritrova tutta la musicalità delle ballate tradizionali, tutto il mistero della vita e della morte”) così come da Alice Munro (“E' davvero difficile infondere nella scrittura l’incanto e la magia di cui è capace Alistair McLeod”). Se poi si aggiunge il fatto che Alistair McLeod è stato paragonato di volta in volta a Ernest Hemingway, William Faulkner e Mark Twain, si capirà perché Il dono di sangue del sale perduto e Calum il Rosso siano due libri da non perdere. A maggior ragione, Calum il Rosso. E’ la storia di un clan che dalla Scozia si trasferisce in Canada, guidato dal capostipite, Calum il Rosso, appunto. Per generazioni e generazioni la storia dei McDonald si spiega tra le due coste e viene ricostruita nei ricordi, nella memoria, nel tempo che sembra scorrere inesorabilmente sopra le loro esistenze. Dalle battaglie medioevali alle miniere (più o meno) moderne la saga viene ricostruita nel dialogo tra due fratelli, Alex e Calum, che la vita ha portato su strade diverse, forse perché “a volte è difficile scegliere da quali cose lasciarci toccare nei momenti più inadatti”. Nei loro discorsi vengono a galla emozioni e segmenti del passato, ma anche una complessa elaborazione linguistica frutto di qualche secolo di migrazioni, missioni, canzoni, storie, incontri e scontri. Racconta Calum il Rosso: “Nelle baracche della miniera di notte si sentivano gli uomini che sognavano in lingue diverse. A volte gridavano parole in portoghese o in italiano, in polacco o quella che fosse la lingua del paese da cui venivano. Erano grida di incoraggiamento o di allerta o di paura e a volte erano più dolci espressioni d'affetto o d'amore. Nessuno sapeva che cosa dicessero, tranne quelli che condividevano una sorta di passato comune. Anche noi sognavamo, i più vecchi in gaelico, e anche i franco-canadesi avevano i loro sogni. E in Sudafrica i nostri fratelli dicevano che anche gli zulu parlavano nel sonno”. Sono i ritmi del linguaggio, le forme delle frasi (“Le parole in sé erano più importanti del loro significato”), i tempi che Alistair McLeod detta al racconto, ai dialoghi a rispondere alla domanda che c'è nella profondità delle fondamenta di Calum il Rosso: “Ci pensi mai, al modo in cui parli, alla lingua del cuore e alla lingua della testa?”. Con questo splendido romanzo non solo Alistair McLeod articola una risposta chiara, concreta e nello stesso aperta ad orizzonti oceanici, ma si conferma anche tra le (poche) sorprese letterarie degli ultimi anni.
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