Tutti i personaggi di James Crumley camminano spediti sempre dalla parte sbagliata della strada e della vita, in cerca di guai come se fossero l'aria da respirare tutti i giorni. La sua visione è nerissima, non soltanto per le consolidate atmosfere noir in cui ha mostrato tutta la sua maestria, ma perché ci tiene a precisare la psicologia dei suoi perdenti, destinati a farsi “prendere per i fondelli in un incubo fatto di morte e di un vento gelido che soffia su una tomba aperta”. Sono le parole che scrive nelle primissime pagine del suo (sottovalutato) esordio, Uno per battere il passo. Una storia di guerra e di amicizia, di cameratismo e di follia, di grandi propositi (perché “un guerriero ha il dovere di sognare”) e di inevitabili dissoluzioni, Uno per battere il passo racconta il legame tra il sergente Jacob Slagsted Krummel, proveniente da una famiglia di guerrieri, e Joseph Jabez Morning, un folksinger a cui hanno cambiato la chitarra con un fucile ovvero un soldato con troppe utopie fin troppo a disagio in una dimensione in cui “gli ordini non hanno niente a che vedere con la razionalità: stanno lì per essere impartiti ed assolti, e non bisogna cercare un senso in tutto ciò”. Per tre quarti, Uno per battere il passo racconta la vita monotona e sbracata in una caserma filippina e le folli escursioni in città, in cerca di un oblio che arriva a forza di birre e puttane e dell’illusione che “tutto è possibile nell’oscurità che precede il mattino”. Una lunga escalation che sfocia nell’ultimo quarto di Uno per battere il passo che si apre con un brevissimo ed esplosivo squarcio nella guerra del Vietnam dove il gruppo guidato da Krummel e Morning viene trasferito agli albori del conflitto, con una micidiale e bruciante descrizione di un conflitto a fuoco con i vietcong che entra di diritto nella storia. L’esperienza è la stessa che segna per sempre ogni veterarno perché, come ricorda il Jacob Slagsted Krummel, “tutti i guerrieri finiscono per rientrare a casa, ma non ero certo di come o di quando la battaglia fosse finita, e non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte”. Quel buio perenne, privo di contorni, senza memoria è la ferita più nera da cui Uno per battere il passo non riesce a distogliere lo sguardo. Con una conclusione che chiarisce alla perfezione la natura e l’essenza stessa della scrittura di James Crumley: “Lo so. Voi preferireste sentirmi raccontare del terrore, dei polmoni che sembravano spaccarsi in due in cerca di una boccata d'aria, dell’impercettibile ma ormai permanente tremore che faceva traballare le mie mani, dei vortici di follia che si impadronirono del mio cervello, o della diarrea che mi sgocciolava lungo una gamba. Ma voi, questo aspetto della storia, lo conoscete già a memoria. Feci quello che feci. Due uomini morirono, altri due rimasero in vita, forse. Non bisogna andare a cercare alcuna logica in tutto ciò. Il terrore ed il tremore non sono una giustificazione; l’azione non ha nulla a che vedere con la ragione; ed i morti sono morti”.
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