La sua storia, esemplare, è quella di un fuoriclasse che si distingue ancora nitida, netta, senza possibilità di errore, a distanza negli anni. E’ un solido macigno che pesa ancora sulla coscienza di tutti gli intellettualoidi che non si sono mai sforzati di capirlo, forse perché raccontava la vita (e la letteratura) in maniera troppo cruda e sincera per loro. In questa prova di forza si distingue Il Capitano è fuori a pranzo, una specie di diario surreale, e nello stesso tempo lucidissimo, che Charles Bukowski ha tenuto tra il 1991 e il 1993, poco prima di morire. Le scommesse alle corse, i suoi gatti, i visitatori più o meno graditi, la sua vita (“A volte mi sento come fossimo tutti prigionieri di un film. Sappiamo le battute, sappiamo dove metterci, come recitare, manca solo la macchina da presa. Però non possiamo uscire dal film. Ed è un brutto film”) sono il centro focale del libro, ma più che in altre situazioni, Bukowksi si dedica volentieri anche a qualche meditazione sulla scrittura, sulla narrativa, sui libri. Con una generosità che ribalta l’immagine da pigro incallito e incontinente e ce lo riconsegna come “un gran lavoratore”, definizione offerta per gentile cortesia di Fernanda Pivano, la cui voce è unica e riconoscibile, come quella voce di un vecchio amico. Le sue “lezioni” di scrittura creativa sono perentorie e minimali, ma tradiscono una passione sterminata e con uno stile che non lascia adito a molte interpretazioni è prodigo di consigli, suggerimenti e aforismi: “Il primo compito della scrittura è salvarti il culo. Se ci riesce, allora è automaticamente vivace, divertente”. Le difficoltà non sono escluse, ma “non c’è niente che possa impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo”. Anche perché in fondo “c’è solo un giudice ultimo della scrittura ed è lo scrittore” e il Buk si è inventato una versione tutta sua del rigore e della disciplina che riassume così: “Uno scrittore non ha niente da dare se non quello che scrive. Al lettore deve nient’altro che la disponibilità della pagina stampata. E il peggio è che molti di quelli che bussano alla porta non sono nemmeno lettori. Hanno solo sentito parlare di te. Il miglior lettore e il miglior essere umano sono quelli che mi fanno la grazia della loro assenza”. E’ una delle tante teorie che gli scappano tra un resoconto di una corsa e una bottiglia di vino, con il contorno dei disegni di un altro superbo outsider, ovvero Robert Crumb, quanto mai appropriati al personaggio e al libro. La sua stessa biografia svela come Charles Bukowski sia riuscito a “ribaltare tutti i pronostici” che, come sembra ovvio, lo davano perduto e fallito in partenza. Invece no, eccolo qui, a scadenze regolari, a raccontarci che “alla fine non vince nessuno, si cerca soltanto una tregua, qualche momento fuori dalla luce”. L'unica cosa che possiamo rimproverare, al grande Buk, è solo che non amava un granché il rock'n'roll. Poco male: nessuno è perfetto, ma lui ha vinto la sua scommessa più importante.
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