mercoledì 30 settembre 2015

Chaim Potok

Fuggendo dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla, soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro, sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo. La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi. Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella loro vita niente cambiò”. In quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi, deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino, legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse mai una fine. A Io sono l'argilla si adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi termini, Io sono l'argilla non lascia indifferenti.

martedì 29 settembre 2015

Stephen King

Tutto comincia con “quel mormorio che è il principio della leggenda”, un'atmosfera sfuggente e carica di elettricità, “un odore giallo, bagnato”: un ricordo che affiora, debole, sfumato e impreciso, eppure efficace nel trasmettere un'inquietudine di cui non si intuiscono le origini, “come guardare attraverso un sottile strato di ghiaccio, simile a quello che puoi staccare da una cisterna in novembre se prima lo picchietti lungo i bordi, guardarci attraverso e vedere la tua infanzia. E' un'immagine incerta e annebbiata e in certi punti si spegne nel nulla, ma nell'insieme c'è ancora tutta”. Stephen King è fantastico nel celebrare le suggestioni, le ombre e i misteri e, forse, per una legge del contrappasso, appare fin troppo lineare quando i mostri si rivelano per quello che sono. L'incognita è sempre più affascinante perché catalizza i dubbi, le tensioni, le emozioni, lasciando nelle zone dell'indicibile molto spazio all'immaginazione, e di conseguenza al lettore. Con Le notti di Salem Stephen King ha trovato il modello che poi ha usato con più frequenza (e con alterni risultati) fino a Revival, e oltre. Ci sono tutti i luoghi comuni e le logiche che poi torneranno a cicli più o meno regolari: la casa (infestata), il mostro e il suo servitore, la città (di provincia), il conflitto (irrisolto) tra bene e male. I mostri (in questo caso, i vampiri in dichiarato omaggio a Bram Stoker e al suo Dracula) sono più impressionanti quando non si vedono, quando sono celati o persino rimossi dalla routine, dalle abitudini e dalla noia. In quei frangenti Le notti di Salem tocca davvero più di un nervo scoperto: una smalltown che è già una città fantasma (prima dell'arrivo degli stranieri) perché viverci è prima di tutto “è un fatto prosaico, sensuale, alcolico”. La gente ascolta le conversazioni al telefono duplex (oggi sembra un reperto archeologico) e l'umanità che scopriranno i vampiri nelle loro fameliche scorribande non è meno mostruosa delle loro sembianze, di sicuro condivide un'estrema solitudine. Stephen King svela l'intreccio (non la trama: “Narrare è fisiologico come respirare; sviluppare una trama è l'equivalente letterario della respirazione artificiale”) fin dall'inizio quando la love story tra Ben Mears e Susan Norton sta sbocciando e sembra non esserci nulla che possa impedire il fiorire della felicità, se non la consolidata esperienza umana che l'orrore dissimula tra indifferenza, corruzione, avidità e altri fenomeni legati agli affari. Le notti di Salem è emblematico perché i vampiri spalancano le porte e le finestre su un villaggio, un paesaggio e attraverso i loro occhi l'America appare per quello che è, un paese di spostati. Stephen King lascia molto in sospeso e anche la più recente edizione, una sorta di director's cut con prefazione, postfazione e tutte le scene tagliate in fase di revisione, non risolve il primordiale dilemma. Pur aggiornando e sublimando le leggende e i trascorsi dei vampiri, resta incerta la loro essenza di mostri, così come è molto sbiadito il ruolo di vittime per i cittadini di Salem, che tanto innocenti non sono. L'ambiguità comprende anche un filo di ironia, per niente datata: “Resta con i piedi per terra. Il mondo va a rotoli e tu ti fai scrupolo per qualche vampiro”. E' quel tocco di classe, che fa la differenza.

venerdì 25 settembre 2015

Allan Gurganus

Nord e Sud Carolina, tra il 1954 e il 1960: padre e figlio (stesso nome: Clyde Meadows Delman) distribuiscono bibbie, la domenica. Per il primo è un'estensione del suo lavoro (è un commesso viaggiatore e l'automobile, in pratica, è la sua vera casa) e un modo per ricostruire una parte della sua vita. Per il secondo, il più piccolo, è una continua scoperta e sorpresa in “un periodo in cui le cose andavano a gonfie vele, un momento di semplicità che confinava in parte con l'idiozia”. L'appunto, molto sibillino, si fa notare fin dall'inizio. La madre, e moglie, con il nome propiziatorio di Grace, rimane isolata e nella sua (nemmeno tanto) splendida solitudine consuma rapporti intensi e fugaci, e tutti lo sanno, perché Falls (altro nome suggestivo) è un libro aperto, come tutte le sacrosante smalltown. Un trittico di eventi (a partire da quello centrale, annunciato fin dal travolgente incipit) spezza la stramba trinità della famiglia Delman e il Clyde junior, come andrebbe anche nella realtà, se ne assume la responsabilità, per quanto ignaro delle contorsioni dell'età adulta: “Ho portato il mondo dentro casa e tutti noi ormai dobbiamo vivere così, scoperti, nell'arida luce pubblica”. In superficie, Allan Gurganus è ironico, elegante, persino cinematico nel raccontare l'America dei motel e delle automobili, delle strade e di quello che c'è ai margini delle strade. Il linguaggio (però) non è per niente politically correct: è scomodo, spigoloso, a volte urticante, come sa esserlo Allan Gurganus, in Santo mostro più che altrove. La voce è immediata, forte, pungente. Per dire, anche particolari che sfuggono sullo sfondo lampeggiano da soli e quindi le forsizie diventano punti interrogativi. Per articoli più importanti, Allan Gurganus ci aggiunge un pizzico di fiele in più e allora la Packard Clipper Deluxe su cui transitano e abitano è “una delle ultime volte il cui la pubblicità americana dichiarava il vero. E mio padre era l'uomo più gentile del mondo”. Tutte le altre forme vengono ricondotte ai due Clyde Meadows Delman e al segreto che li unisce. Clyde Meadows Delman è brutto, il volto “era il corrispettivo facciale delle uova strapazzate” e, in effetti, Santo mostro è anche un'apologia della bruttezza. Solo che è anche dolce, premuroso, “un uomo che a dispetto di tutte le circostanze aveva imparato a intrattenere se stesso e poi gli altri”. Ognuna delle storie e delle frasi che compone Santo mostro è un'esplosione di parole e la giustificata ossessione per l'identità produce un legame riservato ed esclusivo, che Clyde (il figlio, ma forse anche il padre) risolve pensando che “forse basta credere in una cosa. E' quasi tutto lì”. Quando l'infanzia e il tempo ramificato dei due scompaiono insieme, Clyde, il vecchio, sembra aggrapparsi al passato perché il mondo di allora era “più semplice, frontale come uno spettacolo di burattini, era perfino più bizzarro”. Clyde, il giovane, si accorge invece che sta “velocemente diventando adulto se diventare adulti vuol dire violare qualche legge meschina in nome di ragioni più generose e importanti”. Rimane solo (e sola) Grace che, liberando le sue energie, trasformerà gli occasioni tête-à-tête in una serie di redditizi matrimoni. Niente di più americano, con un finale beffardo, e perfetto.

domenica 20 settembre 2015

James Lee Burke

Come tutti gli ultimi capitoli della saga di Dave Robicheaux, Creole Belle si aggrappa ai fantasmi, così com'è per la Louisiana, “la puttana di tutti” su cui incombono gli effetti devastanti dell'uragano Katrina e dell'esplosione sulla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. I due disastri (tutt'altro che naturali o imprevedibili) sono ferite ancora aperte che James Lee Burke accarezza con passaggi regolari e reiterati in Creole Belle, a ricordare che “siamo servi qui, non giocatori. Tutto ciò che accade qui è orchestrato da estranei o da politici. Si tratta di una conclusione deprimente a cui arrivare. Ma questo è il modo in cui le cose girano. Noi ci mettiamo in ginocchio per chiunque porti il suo libretto degli assegni”. All'amarissima constatazione, James Lee Burke risponde tenendo in vita i panorami di un paesaggio che ormai è una visione e Creole Belle è avvinghiato a quelle sfumature, a quei paesaggi e, più che in altri romanzi, a quelle canzoni e a quelle storie. La descrizione delle atmosfere e del clima, dei colori e degli odori è la prassi costante che fa procedere la narrazione per folate, come la nebbia nel bayou e dentro quel flusso emergono, uno dopo l'altro, i personaggi. L'insieme è inestricabile, denso, paludoso: Creole Belle è un romanzo formato famiglia in cui i rapporti tra padri e figli (e figlie, soprattutto) sono determinanti: Dave e Alafair Robicheaux, Jesse e Varina Leboeuf, Alexis e Pierre Dupree (e non finisce qui) sono coinvolti da un moltiplicatore di legami sotterranei. Il retaggio di Creole Belle è più che mai composito e conflittuale e come se fosse un'antologia di Streak non manca niente: la schiavitù e il razzismo, la guerra civile, lo sfruttamento degli uomini, delle donne e dell'ambiente, la prostituzione, i rapporti tra il crimine organizzato e la politica, con poca o punto distinzione ormai, i predicatori e i nazisti, la mafia e i delinquenti dei bassifondi, i pedofili e i poliziotti corrotti, i politici incapaci e gli avventurieri, e poi loro i Bobbsey Twins del dipartimento di polizia di New Orleans che combattono contro tutto e tutti, ma prima ancora contro i propri spettri allo specchio. James Lee Burke, e non c'è dubbio, con tutta la sua retorica e la morale, ispira sempre simpatia per la naturalezza e per la logica con cui alla fine, anche la giustizia è fuorilegge ed è estranea alle regole perché “la gente si chiede come la giustizia venga spesso negata a quelli che più la meritano. Non è un mistero. La ragione per cui guardiamo drammi artificiosi della legge è che spesso la realtà è così deprimente, che nessuno ci crederebbe”. Viste le condizioni, è inevitabile che Clete Purcel, diventi il vero protagonista di un ribaltamento di fronte che, nelal sostanza, ha un solo comandamento: “Devi fare un passo indietro e lasciar volare via tutte le preoccupazioni, le complessità e la confusione della tua vita nel vento. Devi credere che il sole sorgerà a est, e non è degli agili la corsa, e la pioggia scenderà sia sul giusto che sull'ingiusto. Devi dire fanculo e dirlo sul serio e lascia che i dadi rotolino fuori dalla tazza come vogliono”. Finisce in un'apocalisse, e non potrebbe essere in un altro modo, dato che Clete Purcel non si è mai preoccupato molto delle conseguenze del giorno dopo, e, parole sue, “se mi danno un pieno di serpenti di mattina, sono i miei serpenti”. Non fa una piega e, come dice la canzone Jimmy Clanton, Just A Dream, che viene da un lontano passato, forse è solo un sogno. James Lee Burke, pur citando Thomas Wolfe, William Faulkner, Hemingway, Tennessee Williams e Shakespeare più di tutti, se rende conto e chiedergli di più è rischioso perché lui e Dave Robicheaux e tendono a coincidere e ormai hanno passato così tanto tempo insieme che sembra di conoscerli, e sull'onestà di entrambi non si discute. Bisogna solo accomodarsi sulla Caddy di Clete Purcel e lasciarsi trasportare nel caos degli uomini e dei loro spiriti, buoni o cattivi che siano.