La deformazione del linguaggio, e come la sua manipolazione possa determinare le libertà individuali, è ancora una volta il tema ricorrente nei racconti di Giorno di liberazione. George Saunders è sempre spiazzante, e di sicuro non è una lettura consolatoria: è uno dei pochi scrittori che hanno il coraggio, per non dire la temerarietà, di tuffarsi nel caos moderno e di uscirne trionfanti con una narrazione che è fatta di un ritmo implacabile e di una visione distopica di una realtà che somiglia molto alla nostra, ormai diventata un pessimo film dell’orrore di serie b. A partire da Giorno della liberazione, un racconto surreale che fonde molte idiosincrasie attuali con la rivisitazione della cronaca del generale Custer e di Little Big Horn. Sorprendente, fin da quando i protagonisti si accorgono che “proprio mentre siamo parte della storia, siamo in qualche modo persi nella storia, ci rendiamo conto di quanto sia fantastica”. La loro condizione di osservatori impotenti è, a ben guardare, molto simile alla nostra, quando George Saunders scrive: “Ora ci vengono forniti i fatti. Fatti veri. Che sono utili. Per costruire una struttura avvincente. È come camminare in un corridoio stretto, compressi fra due pareti grigie di fatti. Come arrancare in un deserto ed essere colti all’improvviso da una pioggerellina di conoscenza composta proprio dai dettagli che desideravi senza rendertene conto”. L’alternativa a un vocabolario forbito e ricercato è elementare: “Altrimenti parliamo così. Come vi sto parlando io adesso. In modo semplice, poco ispirato, senza alcuna bellezza”. La costruzione dei racconti è imprevedibile, come se le deviazioni repentine del linguaggio dominassero in ogni occasione con la suddivisione dei ruoli in Elliott Spencer, dove un’istituzione sovrintende a un livello articolato e superiore delle comunicazioni, anche criptiche, volendo. Le attrazioni linguistiche sono un aspetto determinante e del resto la scrittura di George Saunders fa riferimento proprio a quello: tratta ogni short story come un mondo a parte, dove può succedere di tutto e, di solito, succede. L’incessante lavorio sulle parole si sviluppa attraverso l’uso delle maiuscole, degli spazi nella pagina e della sottile perversione per i luoghi comuni che George Saunders, come succede in Festa della mamma, dove Alma e Debi, in un sovrapporsi di chiacchiere tra rivali ripercorrono una vita di diatribe e rimpianti. Le contraddizioni che implicano i rapporti tra le persone sono di nuovo al centro dell’attenzione in La mia casa, un racconto enigmatico e struggente nello stesso tempo, e L’audace mamma d’azione. In questi casi, il cambio di registro è evidente, ma non insolito: se gran parte delle short story di Giorno di liberazione sono un’esperienza linguistica penetrante con raffiche di iperboli, Lettera d’amore, è un toccante dialogo epistolare (dal nonno al nipote) sull’America all’inizio del ventunesimo secolo, che si snoda riflettendo “ancora in quell’epoca, non in questa” per poi “trovarsi, di nuovo, in un tempo e in un luogo in cui agire non è possibile”. La vita quotidiana torna protagonista in Una cosa di lavoro, con una ricostruzione assurda ed estenuate del tran tran in ufficio e in Scricciolo, dove in un negozio via via nasce una relazione e poi un matrimonio. Tra le funamboliche piroette, va ricordato anche Ghoul, che riprende una delle ossessioni predilette di George Saunders, i parchi a tema (e, a sua volta, è indirettamente collegato a Giorno della liberazione): una sorta di regime a base di ruoli, maschere, costumi e allarmi (e condanne a morte inflitte a calci), allucinante e inquietante, e permeato dalla sensazione che “sembra tutto perfetto. Ma non succederà”. E, comunque, George Saunders sembra concludere con fare sornione perché “l’intenzione è quella. Fare quello che sappiamo fare, e divertirci”. Notevole.
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