giovedì 28 aprile 2011

James Sallis

I cecchini hanno avuto un ruolo non relativo nella storia degli Stati Uniti. Da JFK a Martin Luther King, ogni rivoluzione finisce nel centro di un mirino lasciando il sospetto che toccare lo status quo sia un peccato mortale, nel vero senso della parola. Succede qualcosa di molto simile anche nella vita di Lew Griffin, il personaggio di James Sallis che abbiamo imparato a conoscere per le sue proverbiali capacità di finire quasi per inerzia nei meandri più oscuri dell’esistenza. Sono gli anni del movimento dei diritti civili e uno di quegli sniper destinati ad influenzare il corso degli eventi sceglie i suoi bersagli tra le vie di New Orleans. Neanche a dirlo, colpisce gli afroamericani e sembra essere imprendibile. Ovvero, qualcuno lo protegge, lo nasconde e lo difende. Una sera colpisce una giornalista che sta indagando sui suoi omicidi ma, vuole il caso (o come scrive James Sallis: “Ci mettiamo un po’ di tempo a capire che le nostre vite non hanno trama”) che proprio in quel momento al suo fianco c'è Lew Griffin, che se la vede spirare tra le braccia. Il calabrone nero diventa così una partita a due, fino a quando non irrompe sulla scena anche Don Walsh (a lui il cecchino ha ammazzato un fratello). La caccia all'uomo, sui tetti e nei vicoli di un’ombrosa New Orleans comincia da un presupposto che è più filosofico che poliziesco: “Non siamo mai invisibili come crediamo. E neanche ciò che ci muove lo è”. Con questo assunto, Lew Griffin si ritroverà persino nel bel mezzo di una rivolta, dove per la prima volta, il suo intervento farà fallire il cecchino inaugurando così la fase finale della sua esistenza. Come già successo negli altri episodi della saga di Lew Griffin (in tutto sono sei i romanzi che lo vedono protagonista e vanno segnalati, oltre al Calabrone nero, almeno La mosca dalle gambe lunghe La falena), gli aspetti noir del romanzo sono soltanto il tessuto su cui James Sallis ricama le sue prospettive sulla città, sui rapporti tra uomini e donne, e sulla vita in generale. Essendo poi il cecchino una variabile piuttosto incontrollabile, Il calabrone nero (che, detto per inciso, è il libro più immediato, diretto e forte di tutta la serie) sembra perfetto per raccontare l'insostenibile incertezza dell'esistenza: “Qualcuno ha detto, una volta, che la vita non è altro che congiunzioni, un accidente di cosa dopo l'altra. Ma gran parte della vita è disconnessa. Sei lì che te ne vai tranquillo, becchi in pieno una buca e finisci in un'altra vita, che neanche sai riconoscere. Ogni giorno ti muovi in dieci direzioni diverse, ti trasformi in dieci persone diverse; di queste, alcune riescono a tornare a casa la sera, altre no”. La filosofia di James Sallis, molto pratica e pertinente, regge sempre, anche sulla distanza perché accompagnata da una scrittura secca, immediatata, persino ruvida in alcuni passaggi, ma intonata alla perfezione con i personaggi, con i paesaggi e con le dimensioni storiche e sociali che non manca di affrontare. Consigliatissimo.

mercoledì 27 aprile 2011

Jack Ritchie

A prima vista, le brevissime short stories di Jack Ritchie, narratore geniale e per molti versi sottovalutato, sembrano compiti perfettamente riusciti di un corso di scrittura creativa. Prendete l’incipit di Fate il vostro gioco, una delle tessere di Il caro prezzo della privacy: “Harry O’Connor mi raggiunse in ufficio poco dopo le cinque del mattino, e gli affidai il locale”. C’è già tutto quello che serve, come l'attacco di una bella canzone: lo sviluppo è poi una conseguenza e se la scrittura e le argomentazioni di Jack Ritchie sembrano elementari è perché, bisogna ripeterlo spesso, la semplicità è eleganza. Lui ne ha fatta una ragione di vita, puntando sull’essenzialità, neanche fosse una scelta di vita: “Non c’è romanzo che non si possa migliorare trasformandolo in un racconto breve: nelle mie mani, I miserabili sarebbe diventato un pamphlet”, amava ripetere e gli esempi, in Il caro prezzo della privacy si sprecano. Anche perché l'arte della short story è espressa al meglio, con racconti, sì, brevissimi ma in cui vengono condensate molte delle magie della narrativa. Non manca mai qualche elemento noir o una sfumatura di mistero e c'è, costante, una nota di ironia che rende appetibili anche i monotoni paesaggi suburbani americani, dove si svolgono gran parte delle storie. Senza trucchi, perché tra le righe di Il caro prezzo della privacy, così come delle precedenti raccolte, Jack Ritchie semplifica la scrittura, scavando fino al midollo di racconti che durano cinque o sei pagine, ma che vanno dritti al bersaglio. Come dice uno dei personaggi di Fate il vostro gioco: “Sono a posto. Niente perni, piombo o ferro. Niente pendenze, inclinazioni o buchi. Un po’ meno attrito e otterreste il moto perpetuo”. Come dire, le storie di Jack Ritchie scorrono veloci e felicemente in quell’attimo che va dalla scrittora alla stampa alla lettura, che in questo caso è un vero e proprio piacere. La rapidità con cui Jack Ritchie riesce a delineare una situazione, un momento, un passaggio è sorprendente, per quanto fragile e leggera: siamo nel campo di bozzetti, di schizzi svolti con arguzia e istinto, con un sapore frizzante molto pop che con ogni probabilità non resisterebbe un altro secondo in condizioni più impegnative in termini di costruzione e/o destinazione. Del resto, per Jack Ritchie la stessa forma è l’essenza e viceversa, visto che la velocità con cui si macina Il caro prezzo della privacy è una parte non indifferente del divertimento che, a dir la verità, non capita molto spesso. Vanno presi per quello che sono: racconti che si sgranocchiano uno dopo l’altro e, nel caso (non improbabile) vi prendano la mano ce ne sono in abbondanza: con Il caro prezzo della privacy di Jack Ritchie sono disponibili una mezza dozzina di raccolte (tra le altre E' ricca, la sposo e l’ammazzo, Le tasse, la morte e tutto il resto, Un uomo al guinzaglio, Approssimativamente tuo e Un metro quadrato di Texas), tutte godibilissime. Fatevene una scorta, l'estate sarà lunghissima.

Robert Stone

La short story è un mondo ormai raro e trovare narratori in grado di muoversi a loro agio in spazi poco più grandi di una canzone è ancora più difficile. La tradizione americana recente, tra cui George Saunders, Tobias Wolff, T. C. Boyle, vanta anche Orso e sua figlia di Robert Stone. Scrittore che ha frequentato la coda dell'onda lunga della Beat Generation, scegliendo poi formule espressive più complesse e adatte ai tempi (il capolavoro di Porta di Damasco), Robert Stone ha ben chiaro il senso della narrativa sia dalla parte di scrive (“Ho sempre pensato che uno dei vantaggi della fiction (a prescindere dalle sue funzioni più importanti) sia la possibilità di evasione”) sia da quella di chi legge (“Ogni essere possiede una vena di percezione profonda. Il problema è portarla in superficie”): due estremi che si traducono in visioni liriche e durissime, a tratti così spietate e drammatiche da lasciare a disagio il lettore. Anche se i sette racconti di Orso e sua figlia sono eterogenei per ambientazione, hanno in comune la varia umanità di perdenti che li popola. Si va dallo stesso stesso Messico di Malcom Lowry in Porque No Tiene, Porque le Falta alle periferie suburbane di MiserereSenza pietà Aiuto (un racconto che con un paio di tagli appropriati potrebbe essere scambiato per Raymond Carver), dalla wilderness di Orso e sua figlia ai Caraibi di Sotto i Pitons: cambiano i contorni, non l’idea cara a Robert Stone di rappresentare le “miserie umane” che contengono. Gente che guida barche a vela tra scogli e correnti strafatta di cocaina; guardie forestali armate di revolver e imbottite di metedrina; assistenti sociali alcolizzati che si svegliano alla mattina col dito sul grilletto di un Remington calibro dodici e non sanno perché; party girls & broken poets, come direbbe Elliott Murphy che credono di essere in guerra perché, come dice uno di loro “ci sono momenti in cui penso che non sarò abbastanza morto, o morto da abbastanza tempo, per togliermi dalla bocca il gusto di questa vita”. Orso e sua figlia è però anche l’occasione di parlare ancora di Porta di Damasco, un magnifico libro che sull'endemico conflitto tra arabi e israeliani spiega più di tutta la CNN e i giornali di questo mondo messi insieme. Certo, non è una short story, ma tra CIA, fanatici di tutte le religioni, discussioni filosofiche, complotti, agenti segreti nei cunicoli di Gerusalemme, Porta di Damasco, rappresenta al meglio la percezione di Robert Stone, che così scrive: “Forse era lì che il mondo si divideva tra la razza di coloro in qualche modo responsabili e quella dei non responsabili. Era una divisione che, personalmente, gli riusciva difficile tracciare. Ma attorno a essa ruotava un perduto universo di vergogna. Ognuno era destinato a scrutare per sempre in quell'oscurità quanto più profondamente avrebbe potuto o osato. Tutti volevano una risposta, una guida per gli sconcertati. Tutti volevano che morte e sofferenza avessero un senso”. Vale anche per Orso e sua figlia

martedì 26 aprile 2011

Delmore Schwartz

Ricostruendo nei dettagli dei suoi racconti la vita della borghesia di New York, Delmore Schwartz ricostruisce il profilo ideale di un “uomo contemporaneo soggetto ai profondi disordini e ai conflitti della vita moderna”. I piccoli contrattempi della vita secondo Delmore Schwartz sono epifanie improvvise e perentorie (“E così, per la prima volta, si rese conto di quanto stretto fosse il legame che lo univa a quella gente. Il suo distacco era un fatto, certo, e tuttavia esisteva anche un'unità infrangibile. Come l’aria era piena delle invisibili voci della radio, così la vita che respirava era piena di quelle vite e degli anni in cui avevano agito e sofferto”) o intense riflessioni crepuscolari (“Nessuno di noi preferirebbe che la vita cessasse con l’infanzia o la fanciullezza, nessuno preferirebbe non aver vissuto tutti gli anni che ha vissuto. E se questo è vero del passato, è probabile che sia vero anche del futuro”). E’ tra questi estremi che la scrittura diventa una zona protetta, forse l’unico spazio con margini di sicurezza verso la realtà: “Il silenzio del foglio bianco è il mio luogo eterno. Non c’è altro per me. Tutto il resto esiste per il piacere di questa attività. Quando non riesco a scrivere versi, quando in testa non ho che vuoto, allora nient’altro vale. Quando, d’altro canto, un’accecante eccitazione m’offusca la mente allora addio felicità perché in tal caso ogni fatica, speranza, illusione, tutto mi ritrovo sulle spalle, seduto qui in questa mia solitudine, circondato dal silenzio che è come la notte prima della creazione del mondo”. Tra i suoi allievi, alla Siracuse University, Delmore Schwartz ebbe Lou Reed che racconta così il suo illustre e tormentato insegnante: “All’epoca studiavo con Delmore Schwartz. Lui odiava ogni genere di musica in cui ci fossero le parole. Pensava fosse tutta merda. Ecco, non direi mai che lui fosse il tipo di persona in grado di capire il genere di musica che mi interessava, ma aveva posto una questione rilevante. Considero Nei sogni cominciano le responsabilità uno dei migliori racconti di tutti i tempi. Linguaggio semplice, cinque pagine, la cosa più sconvolgente che ho letto fino a oggi. E’ una roba incredibile. Pensa, riuscire a scrivere una cosa del genere ma con un linguaggio semplice, accessibile a tutti. Ti manda fuori di testa. Una bomba”. Lo si può provare di persona leggendo i racconti di Il mondo è un matrimonio. Per inoltrarsi nelle pagine di Delmore Schwartz, scrittore e poeta ammiratissimo (Saul Bellow lo scelse come protagonista de Il dono di Humboldt), ma anche votato all’autodistruzione, è sufficiente l’incipit, un inizio che ha il tono del vero e proprio capolavoro: “In questa nostra vita non ci sono inizi ma solo partenze definite inizi, avvolte nelle formali emozioni ritenute proprie e tuttavia spesso forzate. Oscuramente ogni istante nasce dalla vita che si è vissuta e che non muore, perché ogni avvenimento vive per sempre nella mente assorta, in attesa di rinnovarsi”. Da non perdere.