giovedì 10 luglio 2025

Diane di Prima

Il linguaggio è crudo, spontaneo, molto diretto: Diane di Prima celebra le manifestazioni erotiche con tutto il parossismo possibile, eguagliando nelle esperienze sul campo Opus Pistorum di Henry Miller, però va detto che le umidicce descrizioni anatomiche e le geometrie degli amplessi sono le parti che nelle Memorie di una beatnik scorrono via senza colpo ferire. Il sesso in tutte le sue declinazioni appare come un’instabile forma di comunicazione, soggetta a sbalzi d’umore e variazioni sul tema del tutto casuali: Diane di Prima elenca posizioni e performance senza alcun pudore e, sì, all’epoca erano scandalose, ma di tempo ne è passato un bel po’ e nelle Memorie di una beatnik è molto più interessante scoprire le radici della vita bohémienne, il paesaggio urbano del Lower East Side, le ambizioni e la fame di giovani anime ribelli, gli affitti da pagare, i miseri pasti, la sopravvivenza nel clima gelido di New York. Soprattutto la scelta della marginalità, di non assecondare regole precostituite e inamovibili, in favore di velleità artistiche, ancora molto nebulose. Le origini spontanee, la povertà e la promiscuità e la scintilla della scrittura inserita in un contesto di appetiti feroci, e non soltanto di cibo, ma anche di indipendenza e libertà, soprattutto quest’ultima, vanno cercate in una condizione estrema e spesso miserevole, compresa la digressione della vita in campagna, che Diane di Prima condivide con tre uomini. Ritornata nella metropoli, nega ogni legame con la generazione precedente, che “era basato su bugie e sotterfugi”, e poi lei e gli amici che vanno e vengono sono alieni e refrattari alla frenesia di New York si convincono che devono salvaguardare a tutti i costi la loro “integrità (ci volle un sacco di tempo e di energia per definire il concetto di svendersi) e di mantenerci cool”. Con il risultato di vivere un isolamento “totale e impenetrabile” ed è quasi commovente la scoperta dell’esistenza di altri come loro. L’incontro con Allen Ginsberg propiziato dall’apparizione di Urlo è rocambolesco, e si trasforma nell’ennesima prestazione di amore libero & comunitario. Ricorda Diane di Prima: “Sapevo che questo Allen Ginsberg, chiunque fosse, aveva spianato la strada a tutti noi, a tutte quelle poche centinaia di persone che eravamo, semplicemente facendo pubblicare il suo libro. Non avevo ancora idea di cosa significasse, né di quanto ci avrebbe portato lontano”. La sua apparizione è una svolta epocale perché “se c’era un Allen, ne conseguiva che ce ne dovevano essere altri, altre persone, oltre ai miei pochi amici, che scrivevano quello che dicevano e quello che sentivano dire, e che vivevano, anche se in modo oscuro e con vergogna, quello che sapevano, nascosti qui e là come noi; e ora, improvvisamente, queste persone stavano per parlare a voce alta”. La gioia dell’incontro è limitata, l’atmosfera è quella di una vigilia di terrore: “Aspettando con una lievissima amarezza che tutto finisse, che l’era dell’uomo giungesse alla sua conclusione in una vampata radioattiva, adesso si sarebbero fatti avanti e avrebbero detto la loro. Non li avrebbero uditi in molti, ma loro finalmente si sarebbero uditi a vicenda”. A modo tutto suo, Memorie di una beatnik è ancora oggi una testimonianza vivida e validissima dell’emersione della Beat Generation celebrata con un’orgia, a cui Diane di Prima si dedica con un partner d’eccezione, ovvero Jack Kerouac. Non manca nessun dettaglio, ma sono soltanto momenti impalpabili e la postfazione del 1987, molti anni dopo, fa un po’ la cernita tra quello che era reale e ciò che è diventato leggenda. Sono ricordi che si trasformano e si plasmano perché “le persone recitavano se stesse”, poi Diane di Prima si trasferisce in California, con un figlio e l’FBI alla porta, i tempi stavano cambiando e di sicuro non in meglio, sia dal punto di vista personale, sia da quello collettivo, e si ritrova “a scrivere per pagare l’affitto e le vettovaglie”. Memorie di una beatnik nasce così e Diane di Prima racconta: “Mentre scrivevo, ascoltavo e riascoltavo Bird, o Clifford Brown, o Walking di Miles, e mi tuffavo in ricordi minuscoli e perfetti di stanze, e di scene, e di persone dimenticate da lungo tempo; e questo naturalmente è uno dei piaceri di chi scrive prosa, un piacere che stavo gustando per la prima volta”, e, in risposta alle insistente richieste di Maurice Girodias, editore scaltro e visionario, “inventavo strane angolazioni di corpi, o curiosi accostamenti di esseri umani, e ce li ficcavo dentro”, e, in fondo, il doppio senso pare molto più che naturale.

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