Il contesto è quello frammentato dell’America odierna, attraversata da faglie che non riguardano soltanto il bianco e il nero, o altre scomposizioni razziste, ma anche la geografia, tra il nord e il sud, e la storia e/o il tempo, tra passato, presente e futuro. Come direbbe Ta-Nehisi Coates c’è “un conto ancora aperto”, e non c’è dubbio, solo che il passato non si può rimuovere a senso unico: ogni rimozione necessita un nuovo ordine, ma il più delle volte, tanto per cominciare, sviluppa solo un certo grado di caos. Per la Carolina del Nord, la guerra di secessione pare non essere finita mai e così “per alcuni gruppi, in America, il trauma era una sorta di eredità” e, quasi come un principio fisico, il destino di Toya Gardner, giovane artista, è segnato nel momento in cui vuole ricordare un minimo di giustizia, se non altro a livello simbolico. In quel preciso momento nella piccola cittadina, tutti si accorgono che “il mondo era certamente spaccato in due, ma distinguere chi stava da una parte e chi dall’altra non era bianco e nero. Era grigio, e il grigio era il colore più spaventoso perché spesso non si riusciva a individuarlo”. Quando ai margini di una manifestazione di protesta attorno a una reliquia confederata, Toya scompare, sulla small town cala una sudario pesante. Il dilemma che investe lo sceriffo John Coggins, che si sta avviando alla pensione, è una linea di demarcazione netta: è amico di Vess, la nonna di Toya (era un compagno di avventure del marito) e qui le cose si complicano perché il divario tra bianco e nero, almeno in apparenza, viene mitigato. A ben vedere, un’altra divisione, quella tra uomini e donne, diventa palpabile, ed è anche la chiave di volta del romanzo di David Joy. Da una parte la madre e la nonna e la madre di Toya nonché la detective Leah, dall’altra un’ondata maschile. Questa, nonostante tutto, si rivela la frattura più plateale: le donne studiano, lavorano, cucinano, preservano il raccolto degli orti, osservano e ascoltano ed è così che arrivano fino alla fine. Gli uomini cacciano, pescano, soppesano le armi, bevono (troppo). Poi “quelli che pensavamo di conoscere” sono un’altra realtà, si nascondono dietro cappucci bianchi, sono politici e furfanti, due categorie ormai inseparabili, e alla fine è più accettabile il personaggio di William Dean Cawthorn, una figura sfuggente e pericolosa che non sarebbe una sorpresa ritrovare più avanti, implicato in altre storie. Sta dalla parte sbagliata, ed è evidente fin dall’inizio, ma almeno non ha bisogno di mascherarsi. Questo ha un doppio valore perché laggiù “la vita era sempre stata questione di collocare le persone. Sapere da chi e da dove veniva qualcuno ti diceva tutto quello che c’era bisogno di sapere”. La famiglia, l’amicizia, i luoghi (il fiume, soprattutto) diventano la mappa risolutiva e David Joy precisa che “era sempre stato così, un luogo che sembrava perfetto e incantato, il tipo di comunità affiatata che il resto del mondo aveva perso da tempo”. Tocca proprio a Leah “una vulcanica agente”, che lo stesso Coggins ha promosso a detective, a smuovere le acque, anche se coraggio e convinzione la porteranno a setacciare l’intera contea, ma non a vedere oltre la nebbia di contrasti e conflitti. David Joy (che ha già mostrato in Queste montagne bruciano e Dove tende la luce una certa sensibilità per temi attuali e delicati) riesce a collocare nella sua storia abbastanza personaggi per rappresentare un quadro completo delle tensioni americane del ventunesimo secolo, una rappresentazione che tra l’altro Quelli che pensavamo di conoscere condivide con Il sangue dei peccatori di S. A. Cosby. C’è una certa familiarità tra i due romanzi, a partire dai dualismi e dalle contrapposizioni nonché dagli effetti di un passato che ha lacerato la nazione, e che continua a spaccarla, mentre l’identità, e la salvezza, è ancora, come si dice in Quelli che pensavamo di conoscere, “in base al posto da cui provengo e a ciò che mi è stato raccontato per tutta la vita”. Consigliatissimo.
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