Il canto selvatico ha un indice composto dalle quattro stagioni attraversate come se fossero un’unica esperienza, frutto di un’immersione nella wilderness con tutti i sensi allertati (“Ovunque ci si trovi, è certo che si scoprirà qualcosa di memorabile”). La pratica della pesca (soprattutto), della caccia, l’osservazione e l’esplorazione conducono Sigurd F. Olson a considerazioni più ampie e approfondite rispetto al loro esercizio: “Sempre mi accompagnano la ricerca e l’ascolto, non solo per me stesso ma anche per chi era con me, e ho scoperto che ogni volta che riaccendevo un barlume di quell’originario sentimento di comunione e appartenenza conosciuto fin da bambino, ogni volta che intravedevo anche solo per un istante la meraviglia conosciuta allora, gioia e felicità mi colmavano”. Il viaggio a piedi lungo le rive o dentro il fiume in canoa (“Il movimento della canoa somiglia a quello di un giunco al vento. Il silenzio ne fa parte, così come lo sciabordio dell’acqua, il canto degli uccelli e il soffio del vento fra gli alberi. La canoa appartiene al mezzo che attraversa, al cielo, all’acqua, alle rive. Un uomo è parte della sua canoa e di conseguenza parte di tutto ciò che essa conosce”) lo porta a considerare che i laghi e gli stagni e le pozze nei torrenti hanno la stessa dignità. Le escursioni di Sigurd F. Olson sono volte in direzione di una dimensione che è nello stesso tempo primordiale e inedita, per quanto trascurata a favore di una realtà urbana, meccanica e artificiale che l’essere umano si è autoimposto in virtù di chissà quali obiettivi. Saganaga, Manitou, Lac la Croix, Isabella Skylien Trail, Low Lake, Gabemichigami, Kawishiwi, Snowbank Lake sono “luoghi in cui il tempo non significava niente e l’uomo poteva ritrovarsi e ascoltare i propri sogni”. Il rispetto per le origini native conduce a rivedere l’armonia tra gli esseri viventi e non: dagli alberi, le cui liriche descrizioni rivelano una relazione speciale agli animali (le trote, le oche selvatiche, lo scoiattolo, il germano reale sono protagonisti assoluti) fino alle pietre perché Sigurd F. Olson vorrebbe scambiare le sue piccole preoccupazioni “con un po’ della loro stabilità e calma” e ognuna di loro rappresenta una terra in comune. Nello stesso modo, raccoglie nodi di legno per conservarli e bruciarli nei momenti speciali, le chiacchiere con gli amici, perché “più bello che trovare nodi c’è solo vivere in un luogo remoto, portarsi via qualcosa dalle terre selvagge che nessun altro avrebbe trovato per te, una cosa che non vorresti che qualcun altro facesse, tanta è la gioia di farlo tu da solo”. Il canto selvatico è un’apologia incontrastata e insindacabile della wilderness, la splendida realtà della percezione della natura nel suo svolgersi diretto che si apre e si evolve come un processo di identificazione con il paesaggio e il territorio. Sigurd F. Olson scrive che “la ricerca stessa è una ricompensa, poiché nel processo attingiamo ai profondi pozzi dell’esperienza umana, e questo ci fa sentire di appartenere a un’esistenza in cui la vita era semplice e le soddisfazioni reali”. Quella consapevolezza riguarda lo sguardo, il movimento, il superamento delle difficoltà, perché “il piacere estetico non va sempre di pari passo con quello fisico, che non si possono apprezzare appieno odori, panorami e suoni se ogni passo è uno sforzo”. Finalmente una smentita dei luoghi comuni per cui faticare e rischiare sono una componente irrinunciabile, dato che poi sono molto più importanti “i tramonti, il colore delle nuvole e delle foglie, i riflessi sull’acqua”. La semplicità di ogni passo che sottintende Il canto selvatico è un’elegia alla scoperta del “silenzio della natura, quel senso di unità generato solo dall’assenza di immagini o suoni che ci distraggano, un’unità percepita dall’orecchio e dall’occhio interiori, quando sentiamo e siamo consapevoli con tutto il nostro essere piuttosto che con i sensi”. Sigurd F. Olson si premura di precisare più volte che “il silenzio appartiene al mondo primitivo. Senza di esso la vista di un paesaggio immutato non è altro che rocce, alberi e montagne. È il silenzio a dargli valore e significato”. Ed è lì che si può sentire quella che chiama “musica selvatica”, ovvero “il gemito e lo scricchiolio del ghiaccio che si forma sui laghi, il fruscio degli sci o delle racchette da neve sulla neve asciutta: tutta musica selvatica, musica per i nativi per coloro che hanno orecchie per udire”. Le stagioni ci sono ancora tutte, basta ascoltarle.
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