La terra è dura, aspra, difficile ed è come se tutti fossero incastrati tra gli alberi e i torrenti, privilegiando la solitudine e il silenzio perché “le parole non restano senza conseguenze”. Nella contea di Oconee, un angolo perduto negli Appalachi, è compresso un paesaggio che ha una forza determinante almeno quanto quella dei personaggi che ci vivono dentro lottando senza particolari speranze, come qualcuno ammette tra le righe: “Per quanto ci spaccassimo la schiena, c’erano cose per cui potevamo fare ben poco, se non tenere corta la briglia e sperare per il meglio”. Non succede mai nulla, se non l’imperversare degli elementi che minacciano i magri raccolti o una guerra dello zio Sam. Holland Winchester è appena tornato dalla Corea, orgoglioso della sua medaglia Gold Star e pronto all’esibizione della forza. Quando scompare, all’improvviso, non ci sono molte ipotesi da inseguire perché “a un contadino vengono i calli sulle mani. A uno sceriffo vengono al cuore”. Anche se non è dichiarato dai protagonisti di Un piede in paradiso, è chiaro dalle circostanze che non c’è alcun dubbio, ma come per ogni omicidio che si rispetti pur essendo evidente il movente passionale, manca la prova più importante, il cadavere. È qui che interviene l’aspetto ambientale, a cui Ron Rash presta molta cura: tutta la valle e la sua comunità sta per essere ricoperta dall’acqua e trasformata in un bacino idroelettrico. La coincidenza (e non è l’unica) spiega perché, più che a Faulkner o Flannery O’Connor, Un piede in paradiso è da accostare a Un tranquillo week-end di paura di James Dickey. Il potere della wilderness è avvolgente dall’inizio alla fine: Ron Rash immerge tutta la storia in un humus, dove la specificità del territorio è strettamente collegata a ogni personaggio, in particolare ai suoi ricordi. Quando lo sceriffo era bambino e venivano lavate le coperte, c’era ancora qualcosa a cui aggrapparsi: “Era una sensazione bella e pura, stare fuori nel fiume in un caldo giorno di primavera, sapevo che all’arrivo del freddo, mesi più tardi, ci saremmo infilati sotto la trapunta tirandola fin sul mento, risentendo il profumo del detersivo e la freschezza del fiume. Ma non era soltanto quello. Era la certezza che una cosa poteva essere pulita, per quanto fosse sporca e imbrattata”. Non a caso, la vedova Glendover è una sorta di capolinea della storia: conosce le erbe, gli intrugli e le cadenze del tempo ed è considerata una strega, capace di interpretare le voci, la natura che incombe, le superstizioni e i segnali. Purtroppo nemmeno lei può nulla contro la speculazione e il suo destino, come tutti nella contea, è segnato. Gli aspetti rurali sono predominanti e Ron Rash ha una grande dimestichezza nel descrivere flora e fauna, che hanno un peso determinante sullo svolgersi della trama: le parole in effetti sono limitate dove contano di più le forme del paesaggio, le voci degli uccelli, gli estremi del clima. Mentre avanza l’allagamento della valle, le posizioni in assenza della prova, ovvero dell’occultamento del cadavere restano immutate, ma gli intrecci procedono sotterranei, come se fossero rimasti immutati. Partito da singole solitudini, il dramma diventa corale tra sguardi e silenzi che Ron Rash orchestra distribuendo il punto di vista e la voce narrante tra i protagonisti che si incrociano senza incontrarsi davvero. Ed è così che “gli occhi possono mentire, ma alla fine dicono la verità” fino a svelare come siano tutti legati dal quel territorio bellissimo e ostico, destinato a scomparire. Con la colonna sonora di Hank Williams all’inizio e di Johnny Cash alla fine, quanto mai appropriati nel delimitare la dissoluzione di un pezzo d’America.
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