Una volta un caro amico le ha chiesto “se la storia riguardasse più l’oblio e la cancellazione che il ricordo e il compimento”. Per trovare una risposta, Lauret Edith Savoy ha intrapreso un lungo percorso coast to Coast inseguendo Tracce e radici, scavando come una geologa, ma con lo spirito dell’attivista, sapendo che “ciascuno di noi è, a suo modo, un paesaggio scolpito da memoria e perdita”. Il suo proposito di “ramment(d)are”, un concetto ibrido tra il tentativo di ricucire e ricordare verso un’ipotesi di storia condivisa la costringe a risalire un albero genealogico, in parte nativo, in pare afroamericano, che è particolarmente difficile affrontare in un paese come gli Stati Uniti, che soffre di frequenti e inguaribili amnesie. “Ogni paesaggio è un’accumulazione” scrive Donald Meinig citato in una nelle epigrafi e Lauret Edith Savoy affronta quella “terra straniera” incastonata in un’idea di nazione che si regge su sedimenti brutali. La sua ricerca, tra i libri e sul campo, è continua e assidua: la visione è diretta, senza filtri, e aggiunge un tassello dopo l’altro, condividendo la fondamentale cognizione di Keith Basso per cui “fare luogo significa sia fare la storia umana che costruire tradizioni sociali e, nel processo, identità personali e sociali. Noi siamo, in un certo senso, i mondi-luogo che immaginiamo”. Dal massacro di Sand Creek ai Buffalo Soldiers, dalla schiavitù, alla predazione dei terreni, e il genocidio, e la diaspora, e le guerre: quello di Lauret Edith Savoy è uno slalom tra “impronte. Pezzi di memoria. Cose lasciate indietro” e la necessità di dare forma a una geografia della speranza. L’identità, o quella che Clarence Dutton chiama “la lenta acquisizione del senso e dello spirito”, affiora nella minuziosa ricostruzione delle parole (“Immaginate i nomi. Immaginate le origini”) e nei legami con i luoghi (“Una terra immensa si estende intorno a noi. Nazioni intere migrano dentro di noi”) che Lauret Edith Savoy condensa in una limpida dichiarazione d’intenti: “Io cerco le radici del Nord America. Io cerco visioni scaturite dai nuovi venuti di continenti che non siano l’Europa. Cerco, naturalmente, germi linguistici della mia stessa presenza”. Le guide letterarie vanno da Aldo Leopold a Gloria Anzaldúa, da Walt Whitman a Thoreau e le Tracce emergono a strati, nella compressione continentale, nelle mutazioni dell’ambiente così come nell’accavallarsi dei ricordi e “il pensiero corre sempre al tempo che passa, alla memoria in ogni sua forma che diventa incisione sulla terra”. Il linguaggio è una forma e uno strumento, è gioia e tormento che per Lauret Edith Savoy necessita di pause e soste nella convinzione che “per una narrazione il silenzio può essere santuario o cornice. Può celare anche le origini”. Seguendo tutte le Tracce non si attraversa soltanto un intero e problematico continente, con tutte le meraviglie (naturali) e le lacerazioni (umane), ma si è costretti a confrontarsi con l’ineluttabilità dell’esperienza davanti alle sorprese dell’esistenza che vanno da una scatola piena di lettere e fotografie alla metamorfosi di un intero panorama. Come dice giustamente Lauret Edith Savoy, “interrogati dalla vita, siamo chiamati a rispondere” ed è lì che il viaggio comincia (e finisce).
Nessun commento:
Posta un commento