Se, in concreto, si tratta di una particolare selezione dei Diari di Thoreau, nello specifico la collezione botanica dei Fiori selvatici diventa un filtro e un’occasione per scoprire un modo diverso di vedere il mondo e per mettere alla prova l’osservazione intesa come strumento per la comprensione del paesaggio e della vita che ospita. Gli appunti sono compilati nel corso di lunghe passeggiate che si snodano tra stagni, rilievi e sentieri, tenendo nota con scrupolo e attenzione delle fragranze in fioritura perché “la natura non ha mai perso un giorno, né un momento” e le mutazioni delle stagioni e del tempo, viste attraverso i Fiori selvatici, rivelano che “nel paesaggio c’è tanta bellezza visibile quanta ne siamo disposti ad apprezzare, non un granello in più”. L’osservazione è una costante inderogabile e le descrizioni del territorio determinano uno speciale scorrere cronologico che Thoreau identifica momento per momento ma che, in realtà, è qualcosa di più complesso: “Il mistero della vita delle piante è affine al nostro, e il fisiologo non deve presumere di poterne spiegare lo sviluppo sulla base di leggi fisiche o meccanismi da egli stesso creati. Non possiamo aspettarci di poter indagare con mano il tempio della vita, sia essa animale o vegetale. E se tentiamo di farlo non scopriremo che la superficie delle cose”. Se nei Fiori selvatici si manifesta quella che qualcuno ha definito “la poesia del mondo vegetale”, Thoreau si spinge oltre e più volte, con convinzione, ribadisce che il risultato dell’osservazione non è dovuto al caso fortuito dell’incontro, quanto piuttosto a una lunga preparazione a quello specifico istante. C’è una bella differenza e, secondo Emerson, la “fiduciosa” attesa della della fioritura è a tutti gli effetti la dimostrazione della sua capacità di precognizione. In effetti Thoreau diceva: “Benché non creda che una pianta possa germogliare in sua assenza, nutro una profonda fiducia nei confronti del seme. Convincetemi che la sotto ce n’è uno e sono certo che germoglieranno meraviglie”. Se questo vale per ogni singolo vegetale, o per l’apparizione di un casuale scoiattolo, a maggior ragione vale per l’osservatore stesso, che diventa a sua volta protagonista: “La lingua del poeta non è forse influenzata dagli oggetti in natura? Egli vede un fiore, è bello ai suoi occhi, lo influenza poiché simbolo dei suoi pensieri, laddove quel che percepisce indistintamente viene maturato in qualche altra fortuna. Gli oggetti che osservo sono in rapporto di simmetria con il mio umore”. Questa è una misura che Thoreau riesce ad applicare persino alle “piante morte e appassite”, visto che “lo spazio che occupano innanzi ai nostri occhi è pari a quello occupato dalla vegetazione verde. Non vivono solo nella memoria, ma anche nella fantasia e nell’immaginazione”. Sambuco o cardo, edera o quercia, frassino o rovo, c’è l’imbarazzo della scelta e così, Thoreau sostiene che “è infinitamente ricco colui che trova nella natura la materia prima dei simboli e delle metafore con cui descrive la propria vita” (e aggiunge: “Se questi portali di salici dorati mi emozionano è perché ritrovo in essi la bellezza e la promessa di un’esperienza di cui desidero varcare le soglie”), ma anche che “nessun uomo compie mai veramente una scoperta, o persino un’osservazione di scarsa rilevanza, ma quando questo succede, egli sarà nondimeno avvertito da una sensazione di gioia. Le capacità celebrano pertanto ogni forma di scoperta”. Thoreau ricorda pure “che possiamo constatare come una sorta di preparazione e di vaga aspettativa abbia preceduto ogni nostra scoperta. Non ci siamo imbattuti per caso in essa, ma sembra che abbiamo pregato e ci siamo esercitati per ottenerla”. C’è una certa biunivocità nelle sue esplorazioni perché “il paesaggio, quando è osservato per davvero, influenza la vita dell’osservatore”. Le conseguenze sono spontanee e Thoreau le annota senza esitazioni: sottolinea la necessità che gli occhi “vaghino liberi”, una condizione indispensabile perché “non riusciamo a vedere nulla finché non ne siamo posseduti dall’idea, e allora difficilmente riusciamo a notare qualcos’altro”. E così tutti i Fiori selvatici sono la dimostrazione reale che “per il poeta è un giardino fiorito ovunque egli vada, o pensi”, un’opportunità che Thoreau estende a chiunque perché “tutto questo, e molto di più, lo vedrete se sarete pronti a vederlo, se lo cercherete”. Alla fine, più che un trattato di botanica, Fiori selvatici è un vademecum per ritrovare la meraviglia e lo stupore.
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