Quando il giovane avvocato Norman Mushari si trova di fronte alla contabilità della Fondazione Rosewater, capisce di trovarsi di fronte a un pozzo di san Patrizio e cerca, lì, seduta stante un modo per intromettersi nella successione del patrimonio che è enorme e ha un solo erede. Non sarà facile: Eliot è un reduce della seconda guerra mondiale, quando il disturbo da stress post traumatico non era ancora riconosciuto, e si gode l’ingombrante compagnia dell’alcol. Si è trasferito a Rosewater nell’Indiana che, come suggerisce il nome, è anche il punto di partenza di questi self-made man. Tracciata in un reticolo geometrico di strade che ha “anticipato Mondrian” è una small-town nel bel mezzo del nulla. Lì sta scrivendo anche un’opera letteraria, il Libro del catasto, che già dal titolo è tutto un programma, ma la principale occupazione è ridistribuire le fortune che gli sono capitate in dote e passare la giornata a rispondere al centralino dicendo “Fondazione Rosewater: in che cosa possiamo esservi utili?”, e inutile dire che i telefoni squillano in continuazione. Le intenzioni francescane di Eliot sono considerate una pazzia, anche all’interno del suo matrimonio con Sylvia, ma non sono soltanto antitetici alle volontà e alle tradizioni dell’istituzione famigliare, che non sa comprenderli, men che meno accettarli. Sono uno schiaffo a tutta la prosopopea del sogno e della storia americana che Vonnegut innesta sull’albero genealogico dei Rosewater senza particolari deviazioni (salvo l’incrocio con quello di un’altra famiglia, i Buntline) e invece articolando Perle ai porci secondo il suo personalissimo punto di vista. Ci scorrazza dentro in tutta libertà, scombinando il racconto e proiettando di volta in volta un personaggio nella vita di un altro. Kurt Vonnegut esagera (esagera sempre, se è per quello) e qui ha spinto il senso per la divagazione e per l’iperbole ai massimi estremi. La farsa e/o il dramma della famiglia Rosewater si consuma nei contorni di un’America pericolosa, votata a un’idea di successo monotematica, legata all’accumulo di denaro e, di conseguenza, di potere. Vonnegut la ricopre di sberleffi, noncurante di toccare il totem nazionale della ricchezza e dell’opulenza con un racconto frenetico e ipnotico, senza una particolare architettura e con una struttura molto libera che segue le impertinenze di mister Rosewater da vicino. La dimensione in sé di Perle ai porci è un turbinio di ipotesi che si accavallano e di dialoghi inconcludenti, almeno in prima istanza, ma che poi conducono, comunque, all’anomalia di Rosewater (Eliot e l’angolo in cui si dibatte). Così tra “la collezione privata di arpioni più grande del mondo”, un estemporaneo esempio di poesia (“Noi non pisciamo nei vostri portacenere, perciò siete pregati di non gettare sigarette nei nostri pisciatoi”), Shakespeare e Socrate, William Blake e Henry Miller, appare anche Kilgore Trout, lo scrittore alter ego di Kurt Vonnegut, invitato di riguardo a questo party sensazionale che viene presentato (guarda un po’) così: “C’era una fotografia di Trout. Era un vecchio con una folta barba nera. Aveva l’aria di un Gesù invecchiato e spaurito la cui condanna alla crocifissione fosse stata commutata in ergastolo”. Perle ai porci (o Dio la benedica, Mr Rosewater) è una classica turbolenza firmata Vonnegut che non resiste alle tentazioni e passa di digressione in digressione, sprizza humor da tutti i pori esprimendo una critica feroce all’economia di mercato, senza alcun intento moraleggiante perché sa che “il denaro è utopia liofilizzata”. Definizione geniale, e se ne accorgerà anche Norman Mushari.
Nessun commento:
Posta un commento