Nel tentare di illustrare al meglio l’effetto di Dylan su tutti noi, Kazuo Ishiguro un po’ di tempo fa scriveva: “Parte del suo fascino era il fatto che spesso non capivo i testi, e questo mi faceva sentire più adulto; entrare in una sua canzone era come entrare in un mondo di segni misteriosi e sconosciuti, era qualcosa di simile all’esperienza del mondo per un adolescente, quando le cose che non si capiscono sono più di quanto si lasci intendere”. In modo sorprendente questo magnetismo si trasmette persino nelle interviste: anche in una selezione di conversazioni, comunque parziale e per certi versi limitata, la figura di Dylan emerge come una creatura aliena, enorme, ingombrante e, più di tutto, una fonte di ispirazione inesauribile. Il rapporto con le interviste, qui ben rappresentato, è ambivalente. Spesso è reticente (se non proprio sfuggente) davanti a interlocutori improvvisati, fin troppo banali o in situazioni confuse, come succede in ogni conferenza stampa. In altre occasioni è più disponibile a confrontarsi, ad aprirsi e a raccontarsi e a dialogare. Le interviste si accavallano una dopo l’altra, coprendo tutto l’arco della sua carriera, dagli inizi fino a oggi, e allineano una vasta moltitudine di suggestioni e personaggi: Jim Morrison a cavallo sulle Ande, i poeti che “annegano nei laghi”, e poi Frank Sinatra, Woody Guthrie, Johnny Cash, Jack Kerouac, Robert Johnson, William Shakespeare, Billy Joe Shaver, tutti insieme. Ne viene fuori una specie di brillante mosaico, che, comprensivo “della roba che ho scritto, della roba che ho scoperto e della roba che ho rubato”, contiene una bella gamma di sfumature delle galassie di Dylan. È come osservarlo da una postazione di fortuna, ma che offre una visione particolare, con battute lapidarie e sincere (“Oh, i Beatles sono fantastici, ma il loro non è rock’n’roll”), piccole confessioni (“Ho ancora dei desideri, che di tanto in tanto mi portano da una parte o dall’altra”), spunti di etica (“Bastano amore, perspicacia e un buon punto di vista. E bisogna opporsi a ogni depravazione. Il rifiuto di scendere a compromessi, ecco cosa serve per essere un buon artista”), addirittura opinioni esplicite sull’essere genitore (“Ah, non è altro che un modo di credere nella vita. A un certo punto bisogna decidere se si è disposti a sacrificare le proprie idee per qualcosa che potrebbe avere maggior valore. Sacrificare gli ideali per qualcosa di più prezioso in termini di carne e sangue. O si è predisposti in questo senso oppure no”) e sulla felicità (“Non mi sono mai considerato felice o infelice. Ho sempre saputo che c’era qualcosa a cui dovevo arrivare, là fuori. Ma non era dove mi trovavo in quel momento”). Nell’incessante movimento, c’è un po’ di confusione, ma fa parte del gioco, compresa la trascrizione di chiacchierate radiofoniche (molto nonsense) che, anche se non dicono nulla, rendono lo spirito per le sequenze sincopate delle battute, a conferma di quanto sostiene lo stesso Dylan: “C’è un certo tipo di ritmo che in un certo senso è visibile. Non è necessario scrivere per essere dei poeti. Ci sono addetti ai distributori di benzina che sono dei poeti. Io non mi definisco un poeta perché non mi piace il termine. Sono un trapezista”. Le acrobazie si susseguono fino alla tormentata accettazione del premio Nobel, riportata per intero, ma in un modo o nell’altro, Dylan è, sì, elusivo come viene descritto ormai per consuetudine, ma riporta sempre l’attenzione del discorso al mondo circoscritto della canzone. Selezionando con attenzione le risposte, appare in filigrana un processo stratificato, una lettura a più livelli dei meccanismi del songwriting che parte da una linea di partenza immediata (“O succede o non succede. Ciò che importa è solo quello che succede in quel momento: non c’è nient’altro di importante”) e si addensa nell’impresa in sé (“Tutto quello che può valere la pena fare richiede tempo. Bisogna scrivere cento canzoni mal riuscite per ottenerne una valida. E bisogna sacrificare molte cose per cui si può non essere preparati. Che ti piaccia o meno, ci sei dentro da solo e devi seguire la tua stella”). Dylan è prodigo di suggerimenti partendo dal fatto che “una canzone ha bisogno di una struttura, di stratagemmi, di codici, di stabilità”, ma soprattutto necessita di quell’istinto che coabita con la libertà, perché come ha sempre detto “se qualcuno te lo deve spiegare, non lo capirai mai”. Più dei Grammy, dei premi, delle lauree honoris causa e persino più dell’intera accademia, quello che vale è che, come ha detto Robbie Robertson: “In sostanza, ha dimostrato che non c’è nulla di definito”. Vale la pena ricordarlo, ogni tanto.
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