La desolazione del paesaggio umano di Richard Lange è quella già vista in molta letteratura americana e ormai costituisce una sorta di standard, o almeno una cornice che si riconosce subito, fin dalle prime battute nei racconti di Come morti. Un’atmosfera sfuggente, friabile, che si sbriciola nel sapore del fumo degli incendi incendi californiani, nella polvere delle strade che portano in Messico, nella limitata igiene dei motel da quattro soldi, dove la noia è in agguato. I racconti di Richard Lange sono amari, a tratti visionari e onirici, ma collimano con i “contorni minacciosi” del mondo che per gli outsider rappresentano i confini di una gabbia e di una decadenza bella “come uno specchio rotto”. Come morti è popolato da disperati, inconcludenti, illusi e confusi, gente con la tendenza alla fuga, e a sparire, tanto che uno di loro ammette: “È come se fossimo finiti fuori asse”. Sullo sfondo, su uno schermo al contrario, le luci di Los Angeles vengono scambiate per stelle e Hollywood è arsa e disperata, un pulviscolo di false partenze e film di serie b. Richard Lange somma tutto con una scrittura stringente, dura e aspra che non lascia nessun spiraglio: le emozioni sono sfregiate e le ossessioni, le piccole ossessioni che non lasciano scampo, ricordano ogni volta che “qui è sempre buio”, e Ogni bellezza è lontana, proprio come recita il titolo dell’omonimo racconto, definizione che si estende a tutte le short story di Come morti. È una disgregazione continua e il danno è già compiuto. Non c’è la seconda chance prevista per gli americani e ci sono tutti i tranelli della vita, tutte le trappole che scattano come tagliole, e che spesso (se non sempre) i personaggi si infliggono da soli. La frammentazione delle relazioni, i confronti famigliari ridotti all’osso, se non proprio inutili o dannosi, generano un tempo sospeso in cui tutto può succedere, compresa l’esplosione della violenza (in Prevenzione perdite: una rapina disastrosa con la colonna sonora di Neil Young e con special guest: Scarlett Johansson) o che la fuga finisca a casa della mamma (succede in Ritratto di eroe) perché poi lì “ti risollevi e vai avanti. Tutto qui. Per l’ennesima volta”. È l’eccezione che conferma la regola, perché se “a volte la felicità ti sorprende come una canzone portata dal vento”, ci sono momenti di una tristezza infinita e lacerante come in Perso di vista, un “canto di Natale” in cui va tutto a rotoli, come se non ci fosse una rete di salvataggio, o con La difesa-bogo indiana, dove un’urna funeraria viene rubata e sostituita con i resti di un barbecue. Va da sé che il protagonista del racconto “sapeva sempre qual era la cosa giusta da fare o da dire, ma solo perché nella vita aveva commesso un sacco di errori”. La tensione è costante e consuma le storie, anche quando una specie di lieto fine sembra apparire all’orizzonte. Succede in Banca d’America, un racconto costruito attorno a un gruppo di rapinatori dilettanti, che hanno una doppia vita, e sono pure fortunati, al punto che uno di loro dice: “Sembrerà una storia pazzesca sentita in giro, più che una parte della mia vita”. La linea di partenza, si capisce, è Carver, ma gli sviluppi sono più articolati e i dettagli più diluiti: i personaggi sembrano parlare ad alta voce, come quel tizio in Uccello-telefono, che riesce a sostenere che “Prima le cose mi succedevano, adesso invece sono io a decidere quando succedono”, o quell’altro in Prodotti realizzati da non vedenti che dichiara così la sua resa: “Ho tirato avanti. Ho lasciato passare gli anni. E adesso sto bene”. Ma siamo all’apice della rassegnazione: intorno c’è solo il deserto, la birra e il whisky al bancone di un bar, un’auto (a noleggio e in riserva) e un’idea fugace dell’amore, impalpabile come il crepuscolo ai limiti della civiltà occidentale.
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