C’è un dilemma nel rapporto tra Ada e David, ma si nasconde tra le righe di un codice o nella creazione di un mondo a parte, con tutta una sua logica. Ada e David Sibelius sono “insieme, sempre”, essendo rispettivamente figlia e padre, e vivono immersi nel lavoro in laboratorio universitario, che in effetti è una piccola comunità che si occupa dell’interazione del linguaggio umano con quello informatico. Il progetto a cui si dedicano si chiama ELIXIR e assorbe ogni energia, ben sapendo che “le possibilità pratiche offerte da una macchina in grado di replicare la conversazione umana, per iscritto e, in futuro, vocalmente, erano affascinanti e multiformi: in questa maniera si poteva rendere più efficiente un servizio clienti; impartire istruzioni e insegnare lingue; offrire compagnia”. Siamo a Boston nell’orwelliano 1984, una delle tante coincidenze di cui Il mondo visibile è disseminato, e David, che per la giovane Ada rappresenta “la virtù, l’intelletto, l’etica”, comincia a perdere il contatto con i “fatti concreti, solidi, produttivi”. La decadenza mentale è rapida e irreversibile: accolta dalla famiglia asimmetrica di Liston, una collega e amica del padre, Ada cresce, mentre David si dissolve e nell’intrecciarsi di questi due processi, inevitabili, prende forma Il mondo visibile. Decifrare il romanzo non è facile perché Liz Moore ci accompagna in un sovrapporsi di storie, come se la trama aprisse una porta dopo l’altra (in effetti ci sono un sacco di serrature e chiavi sparse un po’ ovunque) e se la comunicazione è il tema centrale, lo sviluppo si diffonde in rivoli e interstizi di città, da Boston a San Francisco, con salti temporali a cavallo di due secoli. La lettura prevede sbalzi e turbolenze impreviste (e non poche sorprese) perché l’incessante ricerca di Ada verso le parti della vita “comprensibili e autentiche”, si deve confrontare con il lascito di David, dettato in ELIXIR e in altre applicazioni, tutte protette da messaggi criptati, se non veri e proprio rompicapi. Se Simon Singh in Codici & segreti sosteneva che “qualunque scrittura segreta può essere analizzata in termini di metodo crittografico generale, o algoritmo, e di chiave, che definisce i particolari di una cifratura efficace”, il dialogo con un programma, che rimanda quello che impara, diventa uno specchio digitale della memoria, che per Ada significa inoltrarsi lungo la scia di misteri lasciata dalla personalità di David, e poi confrontarsi con “universi che operavano al di fuori dell’ambito dell’esperienza umana, pianeti che orbitavano continuamente in una stratosfera alternativa e invisibile, presente ma inesplorata”. La vera eredità paterna è però la vendetta di David contro il declino del corpo, una propaggine dell’intelligenza artificiale nell’infinita vita delle macchine verso “un posto irraggiungibile e segreto. Un posto libero da ingiustizie”. A quel punto gli attriti scientifici e filosofici passano in secondo piano, i molteplici linguaggi si sovrappongono e si mescolano senza soluzione di continuità, ma il livello più importante lo si attraversa tenendo gli occhi ben aperti. Jay David Bolter in L’uomo di Turing sosteneva che “la logica di un programma possa essere tradotta in una specie di incanto visivo” ed è proprio dove ci porta per mano Liz Moore, nell’inseguire Ada: come nella stratificazione della crittografia, anche nella sua storia si svelano più piani e nella loro successione ci svelano l’intenzione di “costruire un mondo”. Per vederlo occorre districarsi nell’effervescenza di una narrazione fittissima di richiami e di interrogativi, di riferimenti espliciti (per comprendere Il mondo invisibile almeno un po’ della storia di Alan Turing è necessario conoscerla) e impliciti (c’è tutto un ribollire di citazioni nascoste) che affronta le mutazioni della modernità come pochi hanno saputo fare, ma che poi, tra le righe lascia intuire che la decodifica più difficile è capire la maternità, la paternità, essere genitori, essere figli.
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