Tra una guerra e l’altra, l’irrequieta congrega di facinorosi che si raduna a Pian della Tortilla ha inviato un messaggio al destino, con un’affrancatura che, a distanza di quasi un secolo, mantiene la dimensione del classico. Le caratteristiche pittoresche delle moltitudini di personaggi rendono Pian della Tortilla un luogo movimentato, ma compensando l’inevitabile distrazione delle giornaliere vicissitudini, il romanzo di John Steinbeck “parla di uomini che, costruiti in unità, elargirono filantropia, e conobbero dolcezza, gioia e, infine, mistico dolore” e, dietro questa ruvida corteccia, rivela un denso midollo di simboli e significati. L’amicizia, un legame immediato, profondo e insieme molto fragile, è la prima linea sul Pian della Tortilla. Sulle colline di Monterey, la povertà, una realtà perenne lungo la visuale di John Steinbeck, è una condizione ambivalente: se da una parte il quartiere vive ai limiti della sussistenza, dall’altra l’allegra brigata ha colto nella frugalità dell’esistenza tutto un particolare senso di libertà. La virtù francescana (il santo ha un ruolo tutto suo in Pian della Tortilla) è distorta quel tanto che basta a concedersi una strategia d’abitudini molto parche, per quanto non del tutto sobrie (anzi). Prendiamo Danny: attorno a lui ruota intorno tutta la vita di Pian della Tortilla, ma resta defilato rispetto agli altri, un po’ più avanti, un po’ più in alto rispetto agli altri fenomeni. Il fatto di aver ricevuto in proprietà due case lo pone in una condizione pensosa e contraddittoria: “la qualità transitoria della proprietà terrena che tanto più stimabile rendeva la proprietà spirituale”, è vista come un condizionamento e da lì all’aprire porte e finestre agli amici e agli sbandati di turno, è ovviamente un attimo. Le avventure ruotano attorno al bisogno primario del vino e ad alcune secondarie questioni, il companatico, e come procurarsi il denaro per pagare uno e l’altro. Ogni escamotage è valido pur di affrontare la giornata, e le peripezie sono caotiche, tanto che “chi avesse sfogliato il libro delle denunce alla questura di Monterey, avrebbe notato che in quel periodo c’era un brusco risveglio di delinquenza spicciola”. Niente di grave, comunque: ogni limitatissimo sforzo resta relativo visto che “gli amici si sentivano spronati all’azione. Ma la scena del dramma era troppo lontana”, e figurarsi se sentivano l’urgenza di muoversi. L’amicizia, in ordine a queste inderogabili urgenze, subisce repentini rovesci (memorabile la scena in cui Joe il Portoghese alias Joe il Grande viene bastonato a sangue, mentre era stato venerato fino a un attimo prima), ma, al di là dell’aspetto tragicomico, i personaggi di Pian della Tortilla sono concordi nel rifiutare di assoggettarsi alla natura degli schemi preordinati della società americana, che non li aspetta, e da cui non si fanno sorprendere. Restando “lontani da ogni preoccupazione di lotta per l’esistenza, essi sedevano al sole giudicando i loro simili”, e l’idea del self made man, e per esteso del lavoro come soluzione e realizzazione è abbandonata a se stessa. Senza tanti rimpianti: le giornate non si distinguono se non per piccoli aneddoti che i frequentatori di Pian della Tortilla trasformano in racconti epocali e frammentari, ben sapendo che “il meglio di una storia è nelle cose dette a metà che l’ascoltatore completa di suo, con la propria fantasia e la propria esperienza”. Insieme al vino, le storie sono l’elemento più importante, e vitale, perché contribuiscono a definire un tempo immobile, e dilatato, dove le implicazioni morali sono azzerate (“Se la strada maestra della vita si divide a un certo punto in due sentieri di generosità e non è possibile seguirne che uno, chi può giudicare quale sia il migliore?”) e una congrua dose di fatalismo è una panacea per ogni occasione. Come intuisce alla perfezione John Steinbeck, il modello di Pian della Tortilla non è ecumenico, non funziona all’infinito e spesso e volentieri traballa e crolla, ma è bello sapere che anche la decadenza ha una sua dignità.
Nessun commento:
Posta un commento