Qui dentro c’è il testamento spirituale, la cassetta degli attrezzi, il canovaccio di Flannery O’Connor. Un ragionevole uso dell’irragionevole condensa in un solo corpo due due volumi, Nel territorio del diavolo e Sola a presidiare la fortezza. Come è noto, il primo è frutto dei “saggi sulla scrittura” ed è un’articolata analisi che affronta le motivazioni, le ambizioni, i sedimenti di una vocazione perché “l’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità”. La seconda metà contiene invece quel nutrito epistolario che rivela gli aspetti più intimi, pungenti, persino divertenti di Flannery O’Connor, a partire dal legame con i suoi famigerati pavoni. Riepilogando, la parte più consistente riguarda l’assiduo confronto con la narrativa in tutti i suoi aspetti: l’elenco delle digressioni comprende “il fatto che sia concreta”, che “è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato ricettivo” dato che “comincia laddove comincia la conoscenza umana, con i sensi” e che, proprio per questo, “è la più impura, la più modesta e la più umana delle arti”. La panoplia dei comandamenti di Flannery O’Connor è vasta e piena di molteplici sollecitazioni: se “il mondo dello scrittore” è “ colmo di materia” e nello stesso tempo anche “del mistero che viene vissuto”, non c’è contraddizione dato che “c’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, che richiede se non altro di offrire a chi cade la possibilità di risorgere”. Le considerazioni teoriche di Flannery O’Connor hanno un’alta densità specifica ed è perentoria quando definisce il racconto “un modo per dire qualcosa che non può esser detto in nessun altro modo; per trasmettere il significato, ogni singola parola è indispensabile. Le storie si raccontano perché una dichiarazione risulterebbe inadeguata”. È attorno a questo compattissimo nucleo si proiettano le enunciazioni di Flannery O’Connor finché arriva alla conclusione che i romanzi più interessanti “sono quelli che ancora non sono stati scritti”. È per questo che, pare assicurarsi la O’Connor, “quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. È anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo”. Dalle profondità della sua solitudine, le lettere sono l’unico collegamento e Sola a presidiare la fortezza offre un ampio spettro della sua vita quotidiana: i dubbi riguardo Il cielo è dei violenti, gli scambi con Elizabeth Bishop, l’incontro con Katherine Ann Porter, le missive a John Hawkes e ai suoi editori, le difficoltà a “collaborare” con il resto del mondo (“Gli allievi di scrittura erano ben pochi e alla lettura pubblica il pubblico non c’era. E il tempo faceva schifo”) fino alle confessioni riguardo alla malattia. Così assemblata la ricchezza della composizione letteraria di Flannery O’Connor è ancora più evidente (e corposa). Rileggerla e consultarla spesso è un atto dovuto, se non proprio obbligatorio.
martedì 29 dicembre 2020
lunedì 28 dicembre 2020
Jeff Tweedy
Nei memoir delle rock’n’roll star c’è sempre un fragile equilibrio tra la volontà di aprire scatole piene di ricordi e il timore delle rivelazioni che ne possono uscire. Il più delle volte, i racconti si barcamenano tra l’urgenza della confessione e le nebbie colorate della fiction, ma non è il caso di Let’s Go (So We Can Get Back) perché come dice subito Jeff Tweedy, a scanso di equivoci: “Non è un romanzo, quindi immagino che il mio unico compito sia dire la verità”. L’intenzione è nobile, le precauzioni sono obbligatorie: Jeff Tweedy è una personalità tormentata dai sensi di colpa e da una fragilità, che lui chiama “vulnerabilità”, che ha nascosto a più riprese dietro un sipario di alcol e droghe. L’onestà con cui racconta le fasi complicatissime della tossicodipendenza, una parte consistente di Let’s Go (So We Can Get Back), è senza dubbio una componente meritevole, soprattutto nella lucidità con cui Jeff Tweedy distingue il dolore e la malattia dai processi creativi: “Credo, infatti, che gli artisti creino nonostante la sofferenza, non grazie alla sofferenza. Non me la bevo proprio. Tutti soffrono, a modo loro, e credo che tutti abbiano la capacità di creare; ma penso che trovare nell’arte uno sfogo per il disagio o un modo di reagire alle avversità sia solo questione di fortuna”. Un po’ di casualità va messa in conto anche nell’addentrarsi in Let’s Go (So We Can Get Back): se all’inizio è la passione istintiva per la musica, con London Calling dei Clash e Born To Run di Springsteen a fare da detonatori, poi partono le dinamiche della vita nelle rock’n’roll band, dove Jeff Tweedy si è concesso una certa disinvoltura nel trattare con gli altri, e qui sfilano i contrasti con Jay Farrar negli Uncle Tupelo e poi con Jay Bennett (e non solo) nella prima versione degli Wilco. Va detto che Jeff Tweedy non risparmia le testimonianze sulle pratiche fallimentari dell’industria discografica che attorno a Yankee Hotel Foxtrot ha consumato tutto il repertorio di banalità, errori e idiosincrasie, senza accorgersi di avere di fronte un album destinato a diventare un classico. La cronaca di quel momento (epocale, e non solo per i Wilco) è condizionata dalla natura fluttuante di Let’s Go (So We Can Get Back): alcuni passaggi sono particolarmente toccanti, qualche divagazione è inconsistente e si nota più di una ripetizione, soprattutto quando parla dei genitori, quasi a voler ribadire i contorni di un’identità sfuggenti. È evidente che Jeff Tweedy è molto più spontaneo, quando parla delle sue letture (James Joyce, William Gass, Emily Dickinson, Henry Miller), del songwriting (“Credo che quasi tutti gli autori di canzoni, tranne forse quelli più originali e talentuosi, ci mettano un po’ a trovare la loro voce. In quel caso, la cosa migliore è fingere. Continuare a provarci, finché non ci si riesce per davvero. Ci lavori ancora e ancora, e se tutto va bene alla fine ce la fai”), del lavoro quotidiano (“Cerco di creare qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa che non esisteva quando mi sono svegliato. Non deve essere lungo o perfetto o gradevole. Basta che sia qualcosa”) e della creatività (“La gente cerca ispirazione e speranza, e se avete una o l’altra dove condividerla. Non per la gloria personale, ma perché è la cosa migliore da fare. Quello che create non è soltanto vostro”). Fuori da questi binari Jeff Tweedy risulta un po’ impacciato persino nel confronto con moglie e figli e, in questo, è probabilmente, sincero anche nella ricostruzione offerta in Let’s Go (So We Can Get Back), a maggior ragione quando, alla fine, deve svelare il suo segreto: “Devi accontentarti del piacere che provi nel farla, la musica, e non puntare sul fatto che ti renda ricco, o che serva a pagare le bollette. Se ti fa stare bene, e quando ti svegli al mattino hai voglia di tornare in studio e creare qualcosa di nuovo, be’, non c’è un cazzo da fare, quello nessuno te lo può togliere”. È l’unica ammissione che conta, ma ci vuole un bel po’ per arrivarci.
giovedì 24 dicembre 2020
Ted Gioia
In uno dei passaggi più complessi nell’evoluzione del Delta Blues, per spiegarne le origini, Ted Gioia lascia opportunamente la parola a John Lee Hooker: “Io lo so perché i migliori bluesman vengono dal Mississippi. Perché è lo stato peggiore. Chi sta laggiù nel Mississippi ha il blues dentro per forza”. È un riconoscimento importante, perché il lavoro di Ted Gioia ha il pregio di offrire una visione completa del Delta Blues che si snoda nell’intersezione tra due secoli, e in un contesto storico in profonda evoluzione. Ecco, quest’attenzione è fondamentale nell’identificare le condizioni in cui si è sviluppato il blues, che dipesero “in larga misura, è lecito pensarlo, dalla pervasività della visione del mondo che avevano i neri e dal loro relativo isolamento dalle consuetudini della vita cittadina”. Giusto un secolo fa, Mamie Smith incideva Crazy Blues, considerato un momento di svolta anche da Ted Gioia, essendo il blues, sì, come diceva W.C. Handy, “una musica nata dalla terra”, ma destinata comunque a trovarsi un mercato. Nella ricostruzione dei rapporti, del tessuto economico e sociale, Ted Gioia è puntuale nel raccontare alti (pochi) e bassi (molti) nei rapporti con l’industria discografica, ricordando come “il musicista americano di blues, al contrario, ha sviluppato una musica di espressione personale, riflettendo spesso una mancanza di legame con la maggior parte della società, evocando atmosfere di alienazione e anomia. Fu la schiavitù a creare questa terribile divisione. La schiavitù distrusse in larga parte il tessuto sociale, i valori e i modi comuni, le continuità storiche che aveva reso possibile l’arte del griot. Da molti punti di vista il blues è stato una risposta a questa deprivazione”. Ted Gioia illustra anche l’importanza del lavoro di ricercatori e appassionati nel creare l’aura di mistero e fascino cresciuta attorno al Delta Blues: dal seminale The Country Blues di Samuel Charters al lavoro di John e Alan Lomax, dalla leggendaria ricerca di Mack McCormick fino a John Fahey, a furia di cercare un mito l’hanno creato, come se l’assenza fosse più determinante della realtà. In effetti, quello del Delta Blues è un mondo di ombre, perché “i pionieri del blues hanno esplorato territori musicali ancora sconosciuti, e anzi nemmeno immaginati, dai sinfonisti. Come pittori dalla tavolozze magiche contenenti sfumature dello spettro fino ad allora sconosciute, questi umili musicisti, disprezzati per classe e razza, offrirono ai loro contemporanei un vivido mondo di nuovi timbri, vibranti di scontri e dissonanze, urla e lamenti, una musica che si adattava perfettamente a fare da sfondo alla vita moderna americana, con la sua cacofonia sociale di superficie e la sua profonda anomia, i suoi drammatici contrasti e la sua ritrovata volontà di riflettere su se stessa”. Al centro di Delta Blues, c’è ovviamente Robert Johnson, il primo fra i fantasmi americani, ma anche il più sfuggente, con cui Ted Gioia rispolvera dubbi, diatribe e contrasti nati attorno alle leggende che proliferano quando “il prodigio cattura la nostra immaginazione”. Nello stesso tempo documenta l’evoluzione concreta di vite e carriere di Son House, Kid Bailey, Honeyboy Edwards, Peetie Wheatstraw, Mississippi Sheiks, Big Joe Williams, Johnny Shines, Ma Rainey, Bessie Smith, Tommy Johnson, Charley Patton, Willie Brown, Kokomo Arnold, Tommy McLennan, Robert Nighthawk, Sunnyland Slim o Little Walter. Il tono è preciso e accurato, a rischio di apparire didascalico, ma è fin troppo evidente che Ted Gioia ci tiene a spiegare a fondo, e con precisione, la natura del blues, che non è così semplice. Di sicuro è un valido strumento sia per approfondire e/o ripassare, sia per i neofiti che qui trovano una guida perfetta per inoltrarsi dal Delta Blues fino al passaggio verso le città, Chicago in primis, sull’onda della grande migrazione raccontata da Isabel Wilkerson con protagonisti Muddy Waters, Jimmy Reed, Howlin’ Wolf e la riscoperta di bluesman come Mississippi John Hurt, Fred McDowell e Bukka White nonché il revival che, tra gli altri, porta Skip James a Newport nel 1964, e da lì poi Ted Gioia arriva fino ai nostri giorni con la Fat Possum e i North Mississippi All Stars. Ottimo e abbondante.
giovedì 17 dicembre 2020
Nelson George
“L’hip hop è iniziato nella verità, si è evoluto nel mito ed è degenerato in una fabbrica di soldi” scrive Dwayne Robinson nelle prime pagine di Il complotto contro l’hip hop. Il manoscritto inedito e il fantasma del suo autore sono il fulcro segreto a cui ruota attorno la trama di Il cuore più buio e il collegamento principale con Funk e morte a L.A., ma la nuova avventura di D Hunter, nel frattempo diventato manager e imprenditore di successo, serve a Nelson George per spiegare come l’avvento di Trump sia frutto di un modello esemplare di reverse engineering dell’hip hop, avendone usato i meccanismi, l’attitudine, gli strumenti. È quello che fa il mercato e Nelson George è esplicito quando scrive che “D riteneva che Trump meritasse un posto speciale all’inferno per aver combinato l’estetica rap con il razzismo”. Ma come è possibile che un grossolano piazzista di amenità, la cui sopravvivenza “era basata sulla falsa onestà e sulle menzogne” sia stato capace di interpretare e riciclare i codici dell’hip hop in modo da stabilizzare “una connessione tra l’imprenditoria e il governo per utilizzare la cultura come uno strumento per il controllo della popolazione”? La tesi che scuote come una scossa elettrica Il cuore più buio ha radici che risalgono agli albori dell’hip hop visto che David Toop, ancora nel 1984, diceva che “la cultura di strada è sempre stata un serbatoio di brividi di seconda mano per il mercato di massa”. Quello era solo l’inizio: seguendo le indaffarate giornate di D Hunter, tra gli interessi di Lil Daye e Mama Daye ad Atlanta, gli ologrammi di R’Kaydia Lelilia Jenkins e il comeback di Night a Los Angeles, si scopre che “il mito è sopravvissuto alla verità (come spesso accade), i dettagli sono diventati confusi (anche per coloro che lo hanno vissuto) e alla fine non sono rimasti che i cliché”. L’hip hop è diventato una vena di un apparato circolatorio in cui scorre una vorticosa corrente di affari, prodotti, gadget, soldi. A confronto, l’intuizione di David Foster Wallace per cui “la vitalità del mondo del rap è fatta di successive sostituzioni, oltre che di varietà, il che permette al genere di restare nuovo anche mentre un gruppo dopo l’altro cede alle lusinghe e fa il suo ingresso nel vero mondo dell’industria musicale”, sembra persino ingenua, ma, per quanto datata, contiene ancora un grumo di verità. Il ritmo sincopato degli eventi, le trame che si sovrappongono, il business che diventa la mercificazione di ogni cosa (legale e non), soprattutto delle singole personalità è il guano in cui sguazza D Hunter. L’appariscenza estrapolata ai massimi livelli, tra il cibo vegetariano, le palestre, un’attitudine salutista e una vita spericolata, l’ambizione a entrare nella televisione, perché anche i più duri voglio una parte in un film (ma Hollywood sembra inarrivabile), fa sì che tutti siano uguali e intercambiabili anche perché “non ci sono veri custodi in America, solo venditori per i quali il modello di quest’anno è materiale da discarica dell’anno prossimo”. Se una volta l’obiettivo era il successo di un album, nell’era di Trump è diventato un posto nel consiglio di amministrazione di una multinazionale. In fondo, D è solo un messaggero e dato che “il passato non muore mai” riallaccia i rapporti con personaggi già visti in azione, e il confine tra nemico e alleato è labile. La più in forma, al momento, è Serene Powers, che si trova a lottare con un traffico di esseri umani (donne, giovani), ma è il ritorno di Ice che permette a D Hunter di saldare i conti ad Atlanta, Los Angeles e persino a New York. Pervaso dai fantasmi di Tupac Shakur e Notorious, il legame tra Ice e D ripercorre gli annali dell’hip hop sulle due diverse coste, e il fitto campionamento delle storie (e delle canzoni) di Nelson George ha trasformato Il cuore più buio in una specie di reality travestito da romanzo, dove, tra un colpo di scena e l’altro lascia emergere, grazie al suo protagonista preferito, un semplice rilievo: “La notte in cui Trump fu eletto, D sapeva che stava per succedere qualcosa. Aveva trascorso troppe notti a tenere d’occhio i bulli nei locali: se percepivano la tua debolezza, ti saltavano addosso”. Colonna sonora (obbligatoria): The Chronic di Dr. Dre.
lunedì 7 dicembre 2020
Edmond G. Addeo
Se il blues si forma nella leggenda tanto vale trattarlo da leggenda, con la certezza che un romanzo merita più di una biografia. La logica di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin magari non è formalmente corretta, ma calza alla perfezione al personaggio, visto che Leadbelly “amava a tal punto le proprie favolette che di rado le escludeva dalle proprie rievocazioni a uso e consumo degli studiosi del folklore, che le riportavano quasi sempre come se fossero vangelo”. La scelta di una versione romanzata (comunque fondata su una solida e validissima ricerca documentale) contribuisce a restituire per intero la tormentata umanità di Leadbelly, che “preferiva il colore all’esattezza”, e viene riscoperto così in tutti i dettagli di un’esistenza dolorosa e controversa, dove il fatto di essere negro è stata una condanna che gli ha pesato fino alla morte. La sofferenza che si è portato dietro Leadbelly è un peso importante che lo ha attanagliato per tutta la vita ed è uno straziante carico di dolore che emerge in un ritratto completo e ricchissimo, senza gli obblighi della biografia e dei riscontri storiografici. È il motivo per cui la ricostruzione di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin resterà sempre attuale, pur essendo stata scritta ormai più di cinquant’anni fa. Per Leadbelly l’incontro con il blues arriva prestissimo, all’inizio del ventesimo secolo, nella spiegazione di Sycamore Slim, un musicista conosciuto nei contorni di uno degli episodi più crudeli della sua storia: “È blues, Huddie. Non l’hai mai sentita perché non t’è capitato. Sai, qui in città i neri se la passano brutta. Ci sono bambini per strada, e con un papà che è andato chissà dove a lavorare nei campi. La raccolta del cotone ha bisogno di neri che si chinano e staccano il cotone e fanno le balle. E dopo una giornata hai le mani piagate e la schiena tutta incriccata. Poi torni a casa o dove stai e ti siedi e se hai fortuna trovi un goccio di whisky e una donna che ti fa da mangiare e pensi a cosa farai domani. La stessa cosa tutti i giorni. E ti cala addosso il blues”. Qualche anno più tardi, sarà Blind Lemon Jefferson a mostrargli il senso delle parole nel blues, oltre a guidarlo verso la chitarra a dodici corde, che resterà il suo marchio di fabbrica. La lezione di Blind Lemon Jefferson lo introduce a “storie strazianti di sofferenze, malattie, siccità, storie di donne nei campi le cui dita sanguinanti macchiavano il cotone, di fruste messe in mano ai sadici e di bambini che tutti i giorni morivano per i morsi dei ratti, immagini di ossa che spuntavano dalla carne e occhi mancanti, di vecchi storpi e neonati morti e madri che vendevano il proprio latte”. Questo è il blues, e poi quello che Leadbelly sperimenta sulla propria pelle frequentando le peggiori galere americane, essendo piuttosto lesto nell’estrarre coltelli e pistole: da Huntsville in Texas ad Angola, in Loosiana (come è chiamata la Louisiana) dove viene registrato da John e Alan Lomax mentre suona per i suoi compagni di sventura, perché “certe volte quando ascoltano il blues dimenticano i guai. Non so perché, ma è così”. Se la parte più dura dovrebbe essere quella della prigionia (ed eccome se lo è: a rischio di apparire truculenti, Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin non risparmiano alcun particolare) quella più lacerante è nell’incontro con lo show business e i suoi meccanismi, e qui il romanzo arriva dove nessuna analisi critica si sarebbe potuta permettere. L’incontro con i Lomax, tra il 1933 e il 1934, lo conduce a Philadelphia, Washington, New York e poi a Hollywood e a Parigi, ma nonostante tutto Leadbelly è sempre un corpo estraneo. Troppo grosso e forte, troppo nero e ingombrante da passare inosservato è una figura imponente e scomoda, anche al cospetto di ammiratori e sostenitori dichiarati come Woody Guthrie e Pete Seeger. Alla loro presenza viene riportata una rissa con un altro bluesman, Josh White, ma è la combattuta identità dell’artista e dell’uomo che esplode, soprattutto a New York, e ancora di più nelle strade di Harlem. La storia è brutale, senza censure e senza correzioni, come è la realtà, puro e semplice blues. Il linguaggio è quello che è e non c’è niente di politically correct: i negri sono negri, gli sbirri sono sbirri, la violenza è la violenza, l’America è l’America e il blues è il blues.
domenica 6 dicembre 2020
Harold Bloom
È un’antologia definitiva delle letture di Harold Bloom, ormai consapevole di essere giunto al capolinea, e nello stesso tempo una selezione di ricordi che vanno a formare una sorta di testamento spirituale, molto informale nella composizione, estremamente articolato nella sostanza. La prima parte è dedicata alle scritture sacre, ed è piuttosto criptica. È un percorso labirintico, trattandosi di argomentazioni teologiche, ma Harold Bloom pare assecondarlo con uno spirito cabalistico. Le sue esegesi sono però eccentriche, frutto di una libera interpretazione letteraria che affronta molti dei temi biblici con una verve creativa e allusiva. Quando arriva a proclamare che “qualunque istituzionalizzazione della profezia è un tradimento”, si capisce che il suo rapporto con la fede è molto elastico e che la benedizione che è andato cercando era essenzialmente laica. In effetti, Harold Bloom dice che “la mia religione è l’apprezzamento della letteratura alta. Shakespeare è il suo vertice. Per me, la rivelazione è shakespeariana o niente”, e con Shakespeare gioca in casa. Trattando il “sublime shakespeariano”, si dedica ai risvolti filosofici, nella parte più veemente di Posseduto dalla memoria. Shakespeare è riletto per l’ennesima volta, come se fosse una galassia da esplorare all’infinito: Harold Bloom affronta i suoi personaggi e a partire dall’amato Falstaff fino a Cleopatra rispolverando le letture con ampie citazioni delle opere shakespeariane. Le digressioni sono costanti e qui il critico lascia spesso il posto all’appassionato ben sapendo che “l’essenza dell’attrazione è l’ambivalenza, oltre a una sorta di ambiguità che si nutre di segretezza”. La terza sezione è dedicata a John Milton e nella quarta parte tocca a Walt Whitman e al “sublime americano”, che ha nel suo nucleo il self-otherseeing, ovvero “il legame tra la sorprendente esperienza di ascoltare noi stessi come se stesse parlando qualcun altro e la volontà di cambiare. Assai più impercettibile è il rapporto tra il vivere qualcosa che sembra accadere a un’altra persona e gli effettivi cambiamenti che hanno luogo in occasioni emotivamente intense”. È un po’ quello il cardine essenziale di Posseduto dalla memoria, ma i quattro quarti sono incastrati uno nell’altro da una raffinata coesione: le scritture sacre, Shakespeare, John Milton e Walt Whitman sono le pietre angolari che delimitano il campo dentro un gioco di diagonali che mettono in comunicazione e intersecano le figure inamovibili di Harold Bloom, che rispondono all’imperativo per cui “occorre spezzare la misura e l’equilibrio per ripristinare l’immagine dell’uomo completo”. Ed è così che il commiato di Harold Bloom rivela che “esiste un legame in grado di unire la composizione di una poesia, le illusioni del ricordo e la vaga speranza di udire nuovamente, in qualche modo, la voce che precedette l’instaurazione di un cosmo abbandonato ed errabondo, in cui vaghiamo alla cieca, incapaci di distinguere cosa è stato e cosa desideriamo ritrovare”. L’epifania ha un nobile precedente quando Samuel Johnson diceva che “la poesia è l’arte di unire il piacere alla verità, chiamando l’immaginazione in soccorso della ragione”. Allora, avanzando tra i capitoli, il linguaggio si fa meno ostico: dalla contorta esegesi della prima parte all’inevitabile ridondanza dei capitoli shakespeariani, nella seconda metà Posseduto dalla memoria diventa più malleabile per arrivare ai toni confidenziali della fase finale, dove Harold Bloom ricorda amici, poeti e scrittori scomparsi, con un’accorata coda proustiana, introdotta da un puntuale accenno a Sant’Agostino e alla sua concezione del tempo. Il tono è quello, dichiarato, dell’elegia, l’atmosfera si fa crepuscolare e Harold Bloom più che “posseduto dalla memoria” pare prigioniero dei ricordi. Alla fine quello che può dire “la luce interiore della critica” è che “il terrore della vita può superare la paura della morte. Il silenzio, essendo innocente, non è in grado di dare risposte comprensibili”, e, in fondo, che la letteratura è l’unico e l’ultimo miracolo. C’è spazio per il ricordo dell’incontro con Weldon Kees a un concerto di Bud Powell con Curley Russell al basso e Max Roach alla batteria, nonché un aneddoto curioso con l’avvistamento di un alligatore propiziato da Richard Eberhart, un episodio che Harold Bloom non ha mai digerito del tutto, e si può ben capire.
mercoledì 2 dicembre 2020
Tom Robbins
In Breve storia dell’ubriachezza, una stringata e ironica analisi sulle vicende dell’euforia alcolica, Mark Forsyth attribuisce alla birra attributi e potenzialità ancora più complessi di quelli descritti da Tom Robbins, con un grado di incidenza significativo negli annali storici “Prima ancora di essere umani, siamo stati dei bevitori. L’alcol esiste in natura ed è sempre esistito. Quando la vita è cominciata, quattro miliardi e rotti di anni fa, c’erano microbi unicellulari che sguazzavano felicemente nel brodo primordiale, nutrendosi di zuccheri semplici ed espellendo etanolo e anidride carbonica. Pisciavano birra, in sostanza”. È una definizione che poteva stare benissimo nel racconto di Tom Robbins e va ricordato che, al pari del vino, la birra serve per evocare “lo spirito di cose assenti”, come diceva Roger Scruton in Bevo dunque sono, e resta un diversivo notevole, che serve a moltiplicare le congetture dell’esistenza degli uomini e delle donne. Più che il rapporto con l’infanzia, impersonato dalla curiosissima Gracie, che riesce a sollevare una lunga serie di quesiti sull’essenza stessa della birra, è la sua voglia di andare alla scoperta del mondo a determinare l’andamento della favola di Tom Robbins. La birra resta un piccolo (ma diffusissimo) espediente per raccontare come gli adulti bramino “l’alternativa alla realtà insoddisfacente che gli uomini si sono costruiti da soli, nella quale si sentono rinchiusi come in un segreta”. La birra è il viatico e la chiave che apre quella porta e la colorita fiaba, completa di cattivi che spuntano nella selva, è divertente e aggraziata, per niente imperdibile, ma ha un suo gusto, diciamo come la schiuma sopra il bordo del boccale, giusto per restare in tema. Nel descrivere la composizione chimica della bevanda, la sua intima natura, Tom Robbins sa essere esilarante, ma anche esaustivo e nell’insieme la favola morale sugli usi (e abusi) e costumi della birra è un po’ naïf, ma è pur sempre divertente, e non priva di alcuni specifici riferimenti scientifici e storici. Anche la fata della birra ha dei fondamenti nel folklore popolare (una figura leggendaria non dissimile volteggiava sopra la nobiltà egizia, per dire), soprattutto nel guidare verso quel mistero che è “tutto. E niente. Allo stesso tempo. A cosa assomiglia l’elettricità all’interno dei tuoi atomi? Qual è l’aspetto del per sempre e del riso e della libertà? È la faccia che tutti condividevano prima di nascere, è la barzelletta che tutti capiranno dopo essere morti. È il significato del significato, l’altro senza altro ancora, il chi di cui non esiste chi più grande”. Nel suo procedere, la saga della birra trova una concessione alla poetica di Tom Robbins che, anche in un contesto vagamente inconcludente, riesce a piazzare la sua zampata, dando forma a un’osservazione sognante: “Quando guardi nella nebbia e nella pioggia, fuori dalla tua finestra, non ti senti a volte come se nella vita ci fosse qualcosa di più di quello che rappresentano la televisione, il centro commerciale, l’asilo o perfino la tua famiglia? Come se ci fosse qualcosa di più grande e più strano, più vivo, libero e reale di quanto può offrire la normalità? Qualcosa che si trova oltre? E che sembra chiamarti, chiamarti anche se non conosce il tuo nome, il tuo indirizzo, se non sa quanti anni hai, senza dare importanza al fatto che tu ti sia lavata le orecchie o abbia finito i piselli?”, e la domanda è rivolta a Gracie che deve vedersela con lo zio Moe e Madeleine Proust, gli elfi dello zucchero, la differenza tra stout e pilsner alla ricerca di un senso che resta delizioso e impalpabile come il primo sorso di birra.
martedì 1 dicembre 2020
David Foster Wallace
Le interviste raccolte in Un antidoto contro le solitudine vanno dal 1987 al 2008 ed è impressionante notare come la densissima filigrana dei pensieri di DFW tenda via via a sfilacciarsi. Certo, la sua visione resta costante e coerente nell’arco di tutte le conversazioni, con una percezione della letteratura e della scrittura in generale che rimane acutissima, partendo dalla consapevolezza delle sue mutazioni: “In passato il compito della letteratura era rendere familiare ciò che era strano, portarti in un posto e fartelo apparire familiare. Ma mi sembra che una caratteristica della vita di oggi sia che tutto si presenta come familiare, quindi una delle cose che l’artista deve fare è prendere molta di questa familiarità e ricordare alla gente che è strana”. Alcune definizioni sono destinate a formare dei punti di riferimento classici, e così la sua prospettiva sulla realtà della comunicazione, a partire dal suo mezzo più ingombrante: “Una cosa che fa la televisione è aiutarci a negare la nostra solitudine. Attraverso le immagini televisive, possiamo avere un facsimile di relazione senza la fatica di una relazione vera. È un’anestesia della forma”. L’attitudine verso i suoi interlocutori è guardinga, sul piano personale, ma quando si tratta di discutere di letteratura, filosofia, linguaggio, DFW non si nasconde e usa l’intervista come uno strumento per esprimersi né più né meno della scrittura. È scrupoloso nelle risposte, mantiene intatto l’entusiasmo e intervista dopo intervista non manca di ribadire alcuni concetti fondamentali: i suoi autori di riferimento (a partire da Don DeLillo), la conoscenza della cultura pop, un’attitudine istintiva alla lettura, ma anche molto elaborata verso la scrittura che prevedeva un rapporto intenso, univoco. Aveva un rispetto singolare e, ancora prima della pratica quotidiana (“Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando”), ne riconosceva il senso a partire dalla musicalità (“E per me, molta della bellezza della scrittura ha a che fare con il suono e il ritmo”), sapeva confessare i suoi rituali (“Ammucchio un sacco di metafore, cerco di rendere la scrittura più graziosa che mai, tento continuamente i colpi più ambiziosi”) e infine non nascondeva i suoi limiti: “E se c’è una cosa che continuamente mi infastidisce, rispetto alla scrittura, è che davvero non mi sembra di raccapezzarmi dentro il linguaggio: non mi sembra mai di raggiungere la chiarezza e la concisione che desidero”. Anche nella forma delle interviste, comunque limitate nello spazio e, come sappiamo, la brevità non era tra i pregi di David Foster Wallace, è riuscito a mostrare di distinguere a fondo il valore di un’opera letteraria perché “ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente”. È stato anche sincero riguardo i meccanismi dell’editoria e del marketing, sperimentato in prima persona con l’hype sorto attorno a Infinite Jest, con tutti i giochi e i ruoli del caso, che sono pure una parte dell’insieme, anche se poi resta solo la convinzione che “la letteratura o smuove le montagne o è noiosa; o smuove le montagne o sta col culo piantato per terra”. La differenza è tutta lì e la ricerca di quel “clic”, come lo chiama DFW, è un’altra delle costanti, perché “c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale”. È per quello che, alla fin fine, la letteratura è qualcosa di più di Un antidoto contro la solitudine dato che “si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano”. DFW lo era in modo un po’ speciale, o, per dirla con l’amico scrittore ed editore Colin Harrison, “era come una cometa che passava rasoterra”. Sì, proprio così.