Patti Smith passa L’anno della scimmia viaggiando da New York a San Francisco fino a Gand e, nell’età della maturità, è un continuo riannodare i fili dei ricordi e delle esperienze, delle amicizie, e delle storie che si sta lasciando alle spalle. Un omaggio, un incontro, un sogno: Patti Smith non rinuncia a nulla, anche se la densità di popolazione della sua galassia si sta riducendo a vista d’occhio. Ma non c’è alcuna revisione, neanche un rimpianto, solo una forza magnetica nell’osservare che non c’è “nessuna regola. Nessun cambiamento. Anche se alla fine tutto cambia. Così funziona il mondo”. Se qualcosa resta sono le persone con cui ha condiviso una vita. Per L’anno della scimmia i primi due principali punti di riferimento sono Sandy Pearlman e Sam Shepard. Noto ai più come produttore discografico, Sandy Pearlman, ha legato il suo nome ai Blue Öyster Cult, una rock’n’roll band con un posto particolare nel cuore di Patti Smith, così come ai Clash (Give ‘Em Enough Rope) e ai Dream Syndicate (Medicine Show), ma è stato anche un teorico del suono e un uomo di cultura (aveva cominciato come critico musicale, in effetti). Patti Smith e Lenny Kaye lo assistono nel suo crepuscolo, sostenendosi a vicenda, tra una tappa e l’altra di un tour. L’affetto è indiscutibile, ma Sandy Pearlman è da tempo incosciente e non c’è altro da fare, se non lasciarlo andare. Con Sam Shepard, anche lui giunto ai suoi ultimi giorni, è diverso e Patti Smith arriva assecondando i segnali del cielo: “In aereo ho provato a non pensare allo stato delle cose, a niente di spiacevole. C’era qualche turbolenza, che a me andava bene, solo schemi meteorologici disturbati senza nulla di intenzionale o personale”. Lo aiuta a definire il libro che diventerà Quello di dentro, lo segue. Lui somiglia sempre di più a Samuel Beckett, ma la sensazione che matura tra i due scrittori in un angolo di una casa nel deserto è che “scrivi in tempo e poi il tempo è passato”. Patti Smith l’aveva capito prima ancora di sedersi al tavolo della sua cucina, davanti alle pagine da correggere e da rivedere. Scesa all’aeroporto di San Francisco, non c’era lui ad aspettarla, ma la sorella. Sam Shepard non guida più, ed è lì che un mondo si era già eclissato, e non serviva altro. Ma Patti Smith e si avvia verso il terzo punto cardinale che distingue L’anno della scimmia. Questa volta punta in direzione opposta, verso e oltre l’Atlantico, attirata dall’esposizione della parte centrale del Polittico di Gand, L’adorazione dell’Agnello mistico. Patti Smith era ossessionata da tempo dall’opera di Jan van Eyck e dell’enigmatico fratello, Hubert, tanto da ammettere: “Ho ragionato così tanto su di loro che una volta mi sono ritrovata nel loro regno, ed erano così vicini che sono tornata a casa con una piccola macchia di pittura sulla manica. Questa forma di teletrasporto mentale era un altro argomento che stava parecchio a cuore a William (Burroughs) e alla terza mente della nostra società, Brion Gysin, e spesso speculavamo sulle sue infinite possibilità”. Paradossalmente, invece, l’incontro con il capolavoro della scuola fiamminga rivela “una percezione fisica dell’artista”, ma questo dipende soprattutto dalle qualità rabdomantiche sfoggiate da Patti Smith che tende a “navigare la solitudine” facendosi accompagnare da una lunga teoria di passioni. L’anno della scimmia allinea i Grateful Dead (e Jerry Garcia in particolare) a Roberto Bolaño, e Lewis Carroll, Billie Holiday e Belinda Carlisle, l’immancabile Dylan e Hot Rats di Frank Zappa, la scena nella piantagione francese ritrovata in Apocalypse Now Redux o una canzone di Van Morrison. Il ritmo del racconto, pacato, riflessivo, metodico nell’inquadrare i dettagli contiene anche una parallela divagazione onirica, in cui Patti Smith dialoga con i suoi personaggi. Il viaggio stesso diventa una composizione, con l’oceano a far da cornice ai ricordi dei suoi caduti e, in fondo, alla sensazione di “guardare sempre lo stesso film sul genere umano”. La scrittura di Patti Smith resta “una strategia catastrofica che rivaleggia con la prudenza”, ed è riflessiva almeno quanto accorata nel rammentarci che “la nostra rabbia silenziosa ci dà le ali, la possibilità di fare in modo che gli ingranaggi ruotino all’indietro, riunendo tutto il tempo”. Nel salutare L’anno della scimmia, il commiato lascia intravedere un’ultima direzione, forse la più intima, che Patti Smith riassume così: “Il mio breve viaggio è servito a ricordarmi che ci sono universi dentro altri universi, e una società fluida che capisce il valore delle piccole cose, fornite dal destino per guidare una persona attraverso cammini disseminati di ostacoli imprevisti”. Non è difficile seguirla: le sue parole sono come un filo in un labirinto: leggere, fragili, ma indispensabili.
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