C’è una luce cupa e livida su Clairton (“abitanti trentaseimilacinquecento”), una cittadina blue collar ai piedi dei monti Allegheni. Una festa di matrimonio, una battuta di caccia, torrenti impetuosi di birra sono tutto ciò che condividono Michael, Stan, Nick, Steven, Angela e Linda, prima che la guerra del Vietnam imponga il suo pedaggio anche a Clairton. All’inizio Il cacciatore si propaga a flash con scene strazianti (Linda e il padre) e tesissime (Michael e Stan alle prese con gli stivali), mescolando in un caos alcolico, l’esuberanza delle amicizie e la malinconia delle solitudini. La scrittura di E. M. Corder è schematica, a suo modo impietosa nel raccontare l’ineluttabilità di una storia che mette in evidenza i luoghi comuni americani: il patriottismo, in primo luogo, una certa cultura macho, i limiti di cittadine cresciute intorno alle industrie (con nessun attrattiva, se non un bar e un bowling), la rigidità del clima e l’impervia bellezza della wilderness. È “la durezza dei sopravvissuti” a tenere insieme un paese che vive del lavoro in fonderia, un mostro che ingoia e sputa acciaio con mille operai. Una vita onesta e durissima, ma dalle prospettive limitate, che vengono riassunte così da Nick: “La questione è tutta qui. Io credo di amare questo dannato paese”. La frase è ambivalente ed è la fonte di ispirazione primaria per la partenza da volontari di Michael, Steven e dello stesso Nick per il Vietnam, che si spiega solo con l’assecondare quei modelli e quelle tradizioni che impongono e reiterano un modello di vita, quasi per inerzia. Il Vietnam è una frattura, centrale e fondamentale per Il cacciatore, dove Steven, forse il più fragile degli amici, dice “noi non siamo fatti per questo posto”. La distanza si fa abissale, ma nelle vicende dei tre protagonisti comincia a prendere forma il racconto anche perché come diceva Michael Herr in Dispacci “dopotutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone”. Questo si rivela particolarmente vero per Il cacciatore, dove i percorsi personali di Michael, Nick e Steven si snodano in direzioni diverse. Solo la figura di Linda resta come un elemento di continuità nella frattura che divide i tre amici, uniti e, nello stesso tempo, separati dalla guerra. La durezza del racconto, molto frammentario, si riflette nella ricostruzione molto parziale della guerra. A parte l’identificazione truculenta dei vietnamiti, che scade nella caricatura, ma è funzionale a una delle scene più avvincenti del romanzo, non c’è dubbio che la storia abbia un suo lirismo e che la tensione sia costante, in particolare nelle fasi conclusive, quando il ritorno sembra mostrare la cittadina di Clairton sotto un’altra luce. È come se mancasse qualcosa, più che qualcuno, ma è facile sbagliarsi e così Michael, l’unico che è rientrato intero, decide di tornare in Vietnam in cerca di Nick, ma “Saigon stava per cadere. La guerra era alla fine. L’America era tesa, ansiosa ed emozionata. L’esercito un caos. In momenti simili, un uomo che si sappia barcamenare, può ottenere ciò che vuole, se è deciso a tutto”. Nella sua decadenza, il finale è tragico e kitsch e si concentra nella figura secondaria di Julien Grinda. Il faccendiere, mentre imperversano i combattimenti senza quartiere, osa dire che “quando un uomo dice no alla champagne dice no alla vita”. È l’emblema della sconfitta, più della roulette russa e degli elicotteri in fuga dall’ambasciata americana, ma sarà un altro, mesto brindisi nella taverna di Clairton a condensare tutta l’amarezza e la dignità che Il cacciatore condensa in sé.
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