In viaggio d’affari a Parigi, Martin Austin incontra una donna, Josephine Belliard. I brevi momenti che trascorrono insieme generano una storia rarefatta e tesissima che Richard Ford sa leggere, ancora prima che scrivere, con grande equilibrio, e con un punta di perfidia. Martin, che vive a Chicago con la moglie Barbara, è un uomo senza particolari qualità, agiato e moderato, ma nasconde qualcosa, se non altro di essere a un passo sul precipizio della noia. Josephine è tutt’altro che una femme fatale nella notte parigina. È una donna ferita che sta vivendo un momento complicato e doloroso, visto che è nel bel mezzo di un divorzio, condito dal libro scritto dal marito, con tanto di rivelazioni sulla sua vita sessuale. Ha un figlio, Leo, che ha comprensibilmente reagito male alla separazione dei genitori. Complice Parigi, che è una città propensa a trasformarsi in un labirinto, perfetto e spietato per le sue emozioni, Martin Austin si avvia a rivelarsi come una sorta una sorta di negativo di Frank Bascombe, il protagonista di Sportswriter, Il giorno dell’indipendenza, Lo stato delle cose e di Tutto potrebbe andare molto peggio, in pratica l’alter ego di Richard Ford. Ha lo stesso aplomb ed è un convinto sostenitore dell’introspezione, ma c’è qualcosa di autodistruttivo in lui che sta scavando. Il fallimento nel matrimonio, negli incontri, nelle relazioni, nello stesso approccio a Josephine e persino l’incapacità di rapportarsi con se stesso sono solo gli effetti di una crisi di nervi latente, alimentata da indecisioni fatali che gli impediscono di esprimersi o di trovarsi. Comincia a girare a vuoto, a perdersi nei vicoli parigini e non si ritrova, nemmeno una volta tornato a casa. Con un’insolita lucidità si accorge, in un lungo ed eloquente passaggio firmato Richard Ford, che “le cose che tengono insieme una buona vita sono talmente piccole e sottili e per la maggior parte costituite da minuscoli eventi fortunati che possono anche passare inosservate. Eppure era facile incasinarle senza neanche rendersi ben conto come, solo che d’un tratto tutto cominciava ad andare storto e a sfasciarsi. Ecco, la vita poteva immettersi su un binario che portava dritto alla rovina, al ritrovarsi in mezzo a una strada, addirittura alla propria scomparsa dalla scena e, nonostante tutti gli sforzi, nonostante le speranze che le cose si mettano diversamente, non si può far altro che assistere impotenti a questi eventi”. La liaison tra Martin e Josephine di trasforma in qualcosa di indefinito, su cui grava la distanza atlantica e la rispettiva posizione, molto transitoria. Le ansie e le titubanze di Martin generano situazioni confuse con Josephine, imbarazzanti con Barbara (memorabile la discussione telefonica) e pericolose con Leo, che sarà al centro del drammatico finale. Qui Richard Ford rivela tutto il suo tatto nel raccontare le precarie condizioni delle relazioni umane, e insieme una sottile ambiguità, nel condannare Martin in un limbo privo di scelte, senza responsabilità, dove manca un pur minima differenza tra felicità e sofferenza. È questa la singolarità che distingue Il donnaiolo. Richard Ford diceva che “anche quando racconto delle vicissitudini e delle difficoltà incontrate dai miei personaggi, delle loro frustrazioni, dei loro problemi, delle loro vite sull’orlo del fallimento, io, come autore di queste storie, mi sforzo sempre di finirle con un tocco di speranza”. Non succede con Martin Austin, che viene abbandonato al largo di una solitudine ben più vasta di Parigi e Chicago messe insieme, e forse se lo merita pure.
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