Un’intraprendente spedizione antartica si inoltra verso “l’ingresso a un mondo proibito di meraviglie sconosciute”. È il 6 gennaio 1931 quando gli esploratori della Miskatonic University si avviano verso Le montagne della follia, e sono tutti preparati (la maggioranza sa anche pilotare un velivolo), con le migliori attrezzature e con una complessa struttura logistica che li supporta, comprensiva di aerei e navi. Data l’impervia natura dell’ambiente e le proibitive condizioni meteorologiche, l’organizzazione è razionale e meticolosa, e altrettanto rigorose sono le finalità scientifiche, almeno fino a quando, oltre Le montagne della follia, un’avanguardia della missione scopre una breccia dove “vita e morte, spazio e tempo hanno stretto un’oscura e blasfema alleanza fin dall’epoca ignota in cui la materia ha cominciato a strisciare, e a nuotare, sulla superficie appena raffreddata del pianeta”. I resoconti che arrivano ricordano più le “cose fantastiche” di Edgar Allan Poe, che le analisi e le osservazioni sul campo, e l’euforia nelle comunicazioni è già un primo segnale d’allarme, seguito poi da un silenzio carico di presagi. Per scoprire cosa è successo, Dyer (che è anche il narratore) e un giovane studente, Danforth, prendono uno degli aerei a disposizione e si avviano il “miraggio di pietra” che si cela dietro Le montagne della follia. Lì si avventurano, contro ogni logica, alla scoperta dei resti di una civiltà ciclopica, dove creature incredibili si sono alternate da picchi inaccessibili e abissi marini. Dyer si rende conto di trovarsi di fronte a qualcosa impossibile da misurare, e, nel suo racconto ammette che “benché ormai fossimo nel cuore di quel groviglio di misteri, ci voleva una decisione tutta particolare per varcare la soglia di un edificio intatto e sopravvissuto da un mondo primitivo la cui natura ci si rivelava in modo sempre più minaccioso”. La minuscola realtà degli esseri umani, in termini di tempo e spazio, al cospetto delle ere geologiche attraversate da altri generi di vita, lascia intendere che “in un posto del genere l’immaginazione poteva concepire qualsiasi cosa” e tutto lascia supporre che si tratti di un incubo fomentato dalla maestosità che incombe con Le montagne della follia intorno. Dyer è molto scrupoloso quando annota che “era questione di vaghi simbolismi psicologici, associazioni estetiche: qualcosa di inestricabilmente connesso con esotiche forme di poesia e pittura, con i miti arcaici celati nelle pagine di volumi temuti e sfuggiti. Persino la forza del vento suggeriva una vena di straordinaria e cosciente malignità, e per un attimo parve che il suo ululato fosse prodotto da un bizzarro insieme musicale, un acuto pigolio che risuonava a ogni raffica fra le onnipresenti imboccature delle grotte. La musica suggeriva un che di repulsivo, ma come le altre spiacevoli sensazioni era complessa e difficile da identificare”. I limiti della conoscenza mettono a dura prova Dyer e Danforth che si ritrovano a indagare strutture architettoniche inaudite e a confrontarsi con esseri evocati soltanto dalla lettura del Necronomicon. Al punto di rendersi conto che “per farsi un’idea anche approssimativa dei nostri pensieri e sentimenti, a mano a mano che ci addentravamo in quel labirinto disumano e sprofondato nel silenzio da milioni di anni, bisognerebbe mettere ordine in uno straordinario caos di emozioni, ricordi e sensazioni fuggevoli”. Nell’oscuro riepilogo di ordinamenti e presenze che sottintende Le montagne della follia, Lovercraft si lascia sfuggire un’involontaria ironia quando Dyer dice che “se eliminassi dal mio resoconto ciò che può sembrare incredibile o stravagante, non rimarrebbe nulla”. Invece, le descrizioni sono particolarmente puntigliose e nell’ostinazione per il dettaglio di H. P. Lovecraft costituiscono la coltre impenetrabile che avvolge Le montagne della follia. C’è una logica in questo sistema ipnotico, e l’ha spiegata lo stesso Lovecraft: “Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro di insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura”. Aveva visto giusto.
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