Nella florida produzione di Stephen King, i racconti hanno avuto fortune alterne perché come ammette lui stesso “un racconto è come un bacio veloce, nel buio, ricevuto da uno sconosciuto. Naturalmente non è la stessa cosa di una relazione o un matrimonio, ma un bacio può essere dolcissimo, e nell’intrinseca brevità del gesto risiede la sua speciale attrazione”. Non sempre quel limitato raggio d’azione risulta fatale e Scheletri, in tutta evidenza, mette in risalto le lacune più palesi dei tentativi di Stephen King. La provenienza eterogenea, nella forma, nell’origine (ci sono racconti che risalgono persino all’adolescenza) e nei contenuti lascia filtrare una certa sensazione di disordine, compreso il fatto che non tutte le storie sono ben definite, o risolte. Spesso i racconti (lo ammette anche Stephen King nell’introduzione) sono embrioni di storie che dovevano essere sviluppate, o che avrebbero meritato più tempo, che evidentemente non aveva o non è riuscito a trovare. Come scrive nell’incipit di Il camion delle zio Otto, “tutti i racconti dell’orrore dovrebbero avere un antecedente o un mistero”, e lungo l’assembramento di Scheletri si ha la sensazione che la regola sia stata più volte elusa, se non proprio dimenticata. Le impronte digitali di Stephen King sono indiscutibili, ma tutte le allucinazioni di Scheletri prendono vita in mezzo a quintali di dettagli, che a volte contribuiscono a definire le storie, a volte non fanno altro che gonfiarne l’inconsistenza. A tratti, i racconti di Scheletri sono semplicemente bizzarri, altrimenti evocano situazioni davvero imponderabili, e allucinanti. Il punto è che gli elementi fondamentali, comprese le svolte fantastiche, si disperdono. Alcune storie sono un po’ frettolose, altre, pur con una certa solidità seguono temi singolari, come Marcia nuziale. Molti partono da situazioni estreme come i naufraghi di L’arte di sopravvivere e Sabbiature. Nel primo, il protagonista approda su uno scoglio con un carico di eroina e attraversa una serie di prove spietate, dall’abbandono alla fame alle mutilazioni fino all’autofagia. Un racconto terrificante, ma anche abbastanza inconcludente. In Sabbiature, c’è una variazione sul tema con il deserto al posto del mare e con un’inclinazione verso la fantascienza, dove affiora una reminiscenza di Dune di David Herbert che diventava il film di David Lynch giusto un anno prima di Sabbiature, ed è difficile non vederci una pesante coincidenza. Le caratteristiche riconoscibili di Stephen King si ritrovano nelle classiche ambientazioni provinciali, compreso il dittico di Consegne mattutine (Lattaio N. 1) e Quattroruote: la storia dei bei lavanderini (Lattaio N. 2) e, ancora di più, in La scorciatoia della signora Todd, dove il rapporto “all american” tra la strada e la wilderness lascia trasparire persino una o più sfumature mitologiche. Merita un cenno anche Il word processor degli dei che anticipa alcuni dei temi che verranno poi approfonditi con La ballata della pallottola flessibile, ma gran parte delle storie sono avvitate attorno a fenomeni imperscrutabili con risultati molto parziali, frutto di una scrittura con il pilota automatico. Resta il fatto che Stephen King riesce sempre a sorprendere, per cui nel complesso di un’antologia ingombrante e un po’ raccogliticcia, saltano fuori comunque un paio di mezzi capolavori, giusto all’inizio e alla fine di Scheletri. Il primo è Nebbia, il lungo racconto introduttivo che in seguito diventerà un breve romanzo e troverà una riduzione cinematografica (da non confondere con l’omonimo e coetaneo film di John Carpenter) e, in tempi più recenti, televisiva. La ballata della pallottola flessibile è uno di quei casi in cui Stephen King si discosta dal fantastico (anche se qualche elemento misterioso rimane sempre) per rivolgere la sua attenzione all’ossessione che sfocia nella follia, e in quella “twilight zone” dove tutto è possibile. Un racconto da dieci e lode, con tutti i crismi di un classico, ormai una rarità.
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