Mentre celebra le gioie e i piccoli turbamenti della famiglia, Sam Bowden si ritrova ad affrontare il passato, e il passato è lì, in tutta la sua forza bruta. Non può rimuoverlo, non può cambiarlo. L’ombra è reale, persistente, arcigna: un incubo vivente. La missione di Max Cady, la vendetta, è ineluttabile ed è chiara fin dall’inizio. Reduce della seconda guerra mondiale, è stato condannato all’ergastolo per uno stupro proprio su denuncia di Sam Bowden, all’epoca tenente (poi capitano) in carico alla procura generale delle forze armate americane. Dopo tredici anni di carcere e lavori forzati, Max Cady si è convinto che Sam Bowden non è soltanto il responsabile della sua pena, ma rappresenta alla perfezione tutto ciò che non ha potuto avere. La feroce determinazione è alimentata da un esplosivo miscuglio di frustrazioni, privazioni, recriminazioni e altre ossessioni che si addentrano nei territori della psicosi. D’altra parte, Sam Bowden riflette un modello all american di felicità: è un avvocato affermato, marito e padre di tre figli, con una bella casa e una barca ormeggiata sul lago. Quello che segue è una lotta senza esclusione di colpi. La risposta di Sam Bowden alle provocazioni di Max Cady si sviluppa per gradi, prima cercando di mantenere un certo ordine e di rispettare per intero l’essenza della vita famigliare e delle sue scelte, poi modificando progressivamente la propria strategia. Gli ideali di ordine e legalità a cui ha votato una carriera cominciano a traballare e non soltanto per la presenza terrificante di Max Cady. I confini tra presunzione e sospetto diventano relativi, sfumati, sfiorati: “il quadro completo della situazione” a cui è sensibile il (malvagio) Max Cady non esiste mai. C’è piuttosto un sovrapporsi, a ondate, di zone d’ombra, molto ambigue, dove i margini dell’autodifesa sfumano in qualcosa che è difficilmente trova riscontro nei codici così come sono stati concepiti e depositati. L’unica certezza è che Max Cady è lì per colpire, nessun dubbio: non avrebbe altro motivo per trovarsi così vicino alla famiglia Bowden. Solo non è chiara la sua strategia, quando e se varcherà la linea che separa l’intenzione dall’atto compiuto. È scaltro e risoluto e la sua presenza mette in dubbio i meccanismi della giustizia cittadina e le carenze della polizia locale. Il ruolo delle istituzioni, a partire dagli sceriffi fino ai tribunali, nell’applicazione della legge si annoda ai movimenti del sottobosco malavitoso: due mondi contigui che si fronteggiano con la convinzione comune che “tutti noi ci muoviamo come un branco, in un certo senso, ed esistono piccoli indizi che indicano quando in mezzo al branco si muove una bestia solitaria e selvaggia, diversa dagli altri”. Alimentato dalla cupa risolutezza dello stesso Cady non meno che dalla volontà di Sam Bowden (e consorte) di proteggere il proprio habitat, il conflitto ben presto esplode ed è implicita la propensione di John D. MacDonald a spingere il lettore a schierarsi, aiutandolo con una minuziosa descrizione dei tratti caratteriali. L’introduzione delle armi da fuoco, da entrambe le parti, implica una rapida svolta: il predatore è destinato a diventare una preda, anche se ormai la distinzione si è fatta molto labile. Noto per le sue riduzioni cinematografiche, Cape Fear all’origine è molto diverso dai film: le distanze da Max Cady e la famiglia restano immutate, ma la reazione a catena che la sua apparizione innesca porta a un’escalation dello scontro, la cui tensione si fa palpabile mentre ci si addentra nella lettura. Sul filo di una scrittura essenziale, precisa, come se scrivesse da lontano ma osservando con un mirino telescopico, John D. MacDonald lascia muovere i suoi duellanti e seguendo le loro tracce s’incammina nella terra di nessuno tra legge e giustizia, un sentiero limitato dove un passo sbagliato può portare dritti nella giungla, motivo per cui ancora oggi Cape Fear trasmette una persistente inquietudine.
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