“Non aspettate la rivoluzione o succederà senza di voi” diceva Lawrence Ferlinghetti ed è ancora il più titolato per ricordarlo, essendo stato il cardine della City Lights, la casa editrice che diventò il punto di riferimento per tutti gli autori Beat Generation, da Allen Ginsberg in poi. L’attività di editore non ha però frenato le sue ambizioni poetiche e letterarie che lo hanno visto protagonista di un flusso continuo di lavori. Lawrence Ferlinghetti ha infatti sperimentato la scrittura nei campi più disparati: il teatro e il romanzo sono stati approdi non casuali e spesso significativi, ma la poesia è rimasta il punto di partenza e di arrivo. Poesie è una selezione antologica che funziona da introduzione alla poetica di Lawrence Ferlinghetti: scandaglia un periodo che va dal 1955 al 1973 con la parte centrale costituita essenzialmente da A Coney Island Of The Mind (1958), una delle opere più importanti della Beat Generation. Quando uscì per la prima volta, ispirato da una frase di Henry Miller, la Beat Generation stava germogliando nel fertile territorio di San Francisco. Con Urlo di Allen Ginsberg e Sulla strada di Jack Kerouac rappresenta una sorta di triangolo da cui tutto è partito, anche se lo sguardo di Ferlinghetti è sempre stato un po’ più disincantato e molto più scrupoloso nel raccontare le “immagini del disastro” e dall’altra parte i veri volti dei fuggitivi della Beat Generation: “È la stessa gente, soltanto più lontana da casa, su autostrade larghe cinquanta corsie su un continente d’asfalto spazieggiato da invitanti cartelli stradali che illustrano imbecilli illusioni di felicità”. La prova del nove è come vedeva Jack Kerouac in Scrivere sulla strada: “Jack non ha nulla a che vedere con i beat o i beatnik, se non nella testa di migliaia di persone che leggono Sulla strada pensando che lui sia una sorte di folle ribelle e sregolato, mentre invece è davvero solo un homeboy, un amico della piccola vecchia Lowell e di certo non un ribelle”. A Coney Island Of The Mind affermava che “eppure alla fine inghiottiamo per salvare le nostre anime da circo le ostie anch’esse immaginarie della grazia” e Lawrence Ferlinghetti ammetteva di aver “versato un altro paio di poesie”. Ne lascerà qualcuna in più, scrivendo “sulla riva d’un fiume esattamente dove tutto era cominciato e così tutto ricomincia daccapo”, ascoltando “il suono dell’estate nella pioggia” e, in omaggio alle visioni di William Blake o Edgar Allan Poe, guardando “verso est nella fine del giorno, l’ultima frontiera fatta ancora d’acqua”. La convinzione è rimasta immutata attraverso gli anni (“Non è il momento ora per i nostri piccoli giochi letterari, non è il momento ora per le nostre paranoie & ipocondrie, non è il momento ora per la paura & il disgusto, è il momento solo per la luce & l’amore”) e Poesie si incastra nei viaggi e nelle avventure di Lawrence Ferlinghetti perché “portiamo noi stessi con noi, ovunque andiamo”. Anche nel viaggio del 1968 a Mosca, che in Scrivere sulla strada raccontava così: “Sono arrivato a Mosca dopo un volo di nove ore su uno strano aereo passeggeri russo, diviso in compartimenti come un treno & carico di soldati di fanteria. L’aereo aveva quattro motori e circa otto propulsori su ogni motore. Aveva l’aspetto e produceva il suono di un nido di farfalle bianche congelate che prendono il volo”. È l’atmosfera che gli ispirerà Mosca nella desolazione, Segovia nella neve, pescando “in un’algebra di lirismo, che sto ancora decifrando”. Nel frattempo “qualche strana specie ha preso possesso dell’America” (e non solo dell’America) come scrive in Scrivere sulla strada, ma non per questo Ferlinghetti si è fermato (anzi) riconoscendosi nel suo stesso autoritratto: “Sono un distillatore di poesia. Sono una banca del canto. Sono una pianola in un casino abbandonato sulla riva del mare in una fitta nebbia e ancora suono”. L’ha fatto per un secolo, lo farà per sempre.
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