I cinque saggi di Leslie Fiedler raccolti da Samuele S. F. Pardini in Arrivederci alle armi toccano un nervo scoperto e dolente della cultura americana: il rapporto con la guerra, che trova radici negli anfratti letterari di James Fenimore Cooper e Mark Twain e nella bandiera issata a Iwo Jima il suo punto di non ritorno. L’ennesima, puntualissima, ricostruzione della fotografia di Joe Rosenthal è per Leslie Fiedler l’occasione per scoprire la fonte di “un mito genuino, vale a dire, sebbene certo una menzogna, quel tipo di menzogna che dice una verità che altrimenti non può esser detta”. Il conflitto con “l’altro”, chiunque esso sia, presuppone un continuo aggiustamento del tiro, un aggiornamento degli obiettivi e un riordino degli elenchi di alleati è nemici. “Combattere è ammettere la propria confusione; è un atto di disperazione, non di forza” scriveva Henry Miller nel 1941 ed è lì che è diventata necessaria quella “griglia mitologica” svelata da Leslie Fiedler che viene costruita e adattata, proprio dalla bandiera di Iwo Jima, sfruttando “uno stereotipo, o un cliché, che è anche un’icona, una forma di mito visibile e perciò a disposizione di tutti”. Le voci divergenti non sono mancate e Leslie Fiedler ricorda, tra gli altri, Tre soldati di John Dos Passos, La stanza enorme di E. E. Cummings e Addio alle armi di Hemingway, libri in cui “il messaggio è che morire per la propria patria non è bello e ragionevole; e che il vero nemico di tutti gli uomini di buona volontà non è il nemico visibile, ma il conflitto armato, non importa per qualche causa venga apparentemente combattuto”. Bisogna porre l’accento sull’ultimo avverbio perché l’enfasi, ben interpretata dalla camminata cinematografica di John Wayne, è stata radicalmente scardinata dalla guerra del Vietnam, che si è propagata come un virus. A differenza, per esempio, di Philip Roth in Pastorale americana, l’analisi della spaccatura nazionale e generazionale di Leslie Fiedler è più elaborata e pungente, e molto pertinente nell’evidenziare le fratture, prima di inoltrarsi nel confronto con i film che la guerra ha ispirato. La svolta avviene in un contesto talmente volubile che Leslie Fiedler più di una volta si sofferma a precisare: “Sto cercando di dire che non è il semplice fatto dell’opposizione alla guerra in Vietnam che rende particolarmente difficile la sua mitizzazione, ma la natura di classe di quella opposizione”. Setacciando poi Il cacciatore, Apocalypse Now e Rambo, Leslie Fiedler mette in rilievo gli elementi conflittuali innati nella cultura americana. In particolare su Rambo, Leslie Fiedler opera un’analisi non frettolosa (come è spesso accaduto) e si avvicina a identificare con precisione il personaggio, con tutte le peculiarità dell’outsider. Pur camminando su un territorio minato, in Arrivederci alle armi, Leslie Fiedler fugge qualsiasi tentazione ideologica, e si concentra soltanto sull’attinenza delle fonti e sugli stili, spiegando che “la guerra viene trattata allo stesso modo in cui i maestri della cultura popolare ci hanno a lungo insegnato a trattare ciò che c’è di reale negli eventi del momento e in varie forme di entertainment”. Sottotraccia, s’intende la trasformazione, proprio a partire dalla serie di Rambo, di una straordinaria débâcle (e non solo militare) in un immaginario epico ed eroico, non del tutto privo di ambiguità (anzi). Questa attitudine è diventa una prassi consolidata visto che, come scrive Lesie Fiedler, “da Iwo Jima in poi le guerre che abbiamo combattuto più di recente sono sembrate sempre più recitate, messe in atto o interpretate”. Se sul Vietnam ha generato una scia di film perlopiù scadenti (e un capolavoro, Full Metal Jacket) ha fatto di contorno a tutte le guerre americane, con un’apoteosi di contraddizioni in Black Hawk Down. Se si può ridefinire una (sanguinosa) vittoria, come è stato a Iwo Jima, si può anche riscrivere una sconfitta: in fondo non c’è differenza, e la guerra può continuare all’infinito, come del resto è stato.
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