Quando Woody Guthrie scrisse Grand Coulee Dam per un documentario destinato a celebrare la diga sul Columbia River, colse soltanto gli aspetti pratici e più urgenti, l’enormità dell’opera e il suo peso nella produzione di elettricità per lo sforzo dell’industria bellica. L’impatto di quella che è “tuttora una delle più grandi strutture in cemento del mondo” invece ha stravolto l’habitat naturale, impedendo le migrazioni dei salmoni, che risalivano la corrente per andare a riprodursi. Settant’anni dopo, il grido di dolore di Sherman Alexie non è per niente mitigato: “Spiritualmente parlando, gli indiani Spokane e tutte le altre tribù Salish veneravano il salmone come altri popoli possono adorare le proprie divinità. Quindi, scientificamente e spiritualmente, la diga della Grand Coulee ha ammazzato la storia della mia tribù. Ha ammazzato il legame della mia tribù con la sua divinità. E ha ammazzato il legame della mia tribù con il suo futuro. Per noi, la diga della Grand Coulee è una lapide gigantesca”. Una perdita devastante intrecciata da Sherman Alexie, nelle fasi iniziali di Non devi dirmi che mi ami, con la scomparsa della madre Lillian, che una volta ha raccontato al figlio di aver attraversato il fiume “in groppa a un salmone”. Leggende, sogni, storie (e una serie di stupri) fluttuano senza soluzione di continuità nel movimentato universo personale di Sherman Alexie che, una volta intonata la sua canzone di morte, segue il suggerimento del poeta Simon Ortiz: “Ascolta. Se è finzione, farà meglio a essere reale”. Un consiglio che funziona anche al contrario: l’elegia per la perdita della madre e la risalita del “salmon boy” si evolvono tra un memoir aspro, tortuoso e intriso di humour, e una danza di fantasmi perché “i morti hanno voce solo se gliela diamo noi”. Diventa ben presto evidente che i toni autobiografici sono un pretesto e che il dialogo con se stesso è un sasso nello stagno che si allarga in onde regolari, ma il ritorno all’infanzia, e alle ombre, e alle malattie, un confronto che aveva già approfondito in Danza di guerra, qui è preponderante, ed esplicito. Comincia con i Quaranta coltelli che Sherman Alexie usava per blindare la porta della sua camera, per tenere fuori la povertà, la violenza, l’alcolismo, il razzismo che delineano la sofferenza dentro e oltre i confini delle riserve. Spalancando un varco nei suoi ricordi Sherman Alexie cuce con un filo sottile frammenti di vita privata e pubblica, scegliendo, di volta in volta, gli strumenti più consoni, le poesie, i racconti, le canzoni, senza un particolare ordine. Non devi dirmi che mi ami di Sherman Alexie va preso così com’è, un percorso che non ha direzione perché è circolare, e sapendo anche che “nel mondo indigeno, i cerchi hanno un valore sacro. Ma a volte un cerchio significa semplicemente che stai continuando a ripetere sempre le stesse cazzate, ancora e ancora. Questo libro è una serie di cerchi, sacri e profani”. È proprio così: Sherman Alexie torna sempre sul punto, senza alcun timore di ripetersi e le sue reiterazioni, nella costruzione di questo altare di parole per la madre e per il salmone, si avvalgono della facoltà di leggere e rileggere il passato con tutta la libertà possibile, nella convinzione che “se ripeti abbastanza volte una storia, diventa una canzone”. Sherman Alexie non fa niente per rendere agevole l’immersione nel caos alimentato dagli spetti di Non devi dirmi che mi ami: il flusso di coscienza è un’operazione a cuore aperto, molto dolorosa, molto toccante perché “in questa storia c’è un dolore troppo autentico per essere una bugia”. Fidatevi del salmone: sì, This Land Is Your Land, ma la verità è che questa terra è fatta per te e per me, ma non è per tutti.
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