La filosofia di Wendell Berry è chiara, molto pragmatica, e per niente ideologica. C’è un mondo solo ed è destino viverci dentro, insieme, come un’unità, e “se vogliamo salvare la terra dobbiamo salvare le persone che appartengono alla terra. Se vogliamo salvare le persone dobbiamo salvare la terra a cui appartengono le persone”. Un’equazione ecologica ed economica che viene articolata attraverso i recenti saggi (dal 2010 al 2013) di L’unico mondo che abbiamo, nitide testimonianze della sua distanza dai modelli di riferimento prevalenti. L’avversione di Wendell Berry per la meccanicità del pensiero è ribadita a lungo perché la frattura parte proprio da lì, dalla rimozione di alcune parole sostanziali (solidarietà, su tutte) e dalla ripetizione di leitmotiv frustranti e intoccabili. Wendell Berry è molto preciso nel sottolineare come la riduzione e la semplificazione del linguaggio sottintendono “un dissidio formale tra economia umana ed economia della natura, o tra economia ed ecologia”, al punto che “l’ipotesi dominante sembra essere che un’economia fiorente possa essere sostenuta solo dall’abuso: quello della terra e delle persone che la lavorano”. È da questa deformazione che discendono tutte le crepe insanabili nella connessione con la terra: come scriveva in Soluzioni agricole a problemi agricoli, ancora nel 1978, “è possibile che il cambiamento più drammatico e distruttivo dell’epoca moderna, in ultima analisi, sia stato un cambiamento di linguaggio: l’ascesa dell’immagine e della metafora della macchina”. Il processo di industrializzazione (comprese, non ultime, le sue propaggini belliche) obbliga “a sostituire la scienza alla cittadinanza, al senso di appartenenza alla comunità e alla buona gestione della terra”, ma “il vero problema è la politicizzazione della vita personale o privata”. È lì che “le certezze morali troppo semplificate, che richiedono sempre ostilità e sono sempre potenzialmente violente, ci isolano dalla clemenza, dalla pietà, dalla pace e dall’amore, per lasciarci soli e afflitti nella nostra miseria”. Mosso da una sincera preoccupazione per lo stato della terra (e dell’America in particolare), Wendell Berry denuncia senza paura, rilevando quanto siano pericolose e quanto costino, le idiosincrasie e la costruzione quotidiana dei luoghi comuni, ricordando che “quando la gente inizia a sostituire le storie della memoria locale con le storie degli schermi televisivi, un’altra parte essenziale della vita viene perduta. Io ho ancora memoria delle storie della mia piccola comunità rurale. Narrando e rinarrando queste storie, le persone raccontavano a loro stesse chi erano, dov’erano e che cosa avevano fatto. E così, nella conversazione ordinaria, mantenevano viva la loro stessa memoria”. Le sue valutazioni partono proprio dall’osservazione sul campo e dalle interazioni dell’uomo con la natura e consolidano l’urgenza di tornare a un senso di appartenenza alla terra, il valore in sé di “un’autentica, antica, necessità umana di possedere e di appartenere a un pezzo di terra, per quanto piccolo o povero, con cui e per il quale vivere e di cui prendersi cura, un luogo in grado di offrire sostegno per sé e le proprie famiglie e, se necessario, ai propri vicini”. La collocazione di quel “paesaggio economico” parte dall’unità di misura che Wendell Berry definisce “occhi-per-acro”, cioè una dimensione la cui visibilità è parallela alla vivibilità e in cui “camminare” non è soltanto il mezzo di locomozione preferito (insieme ai cavalli) ma la pratica iniziale di una vocazione: “Dobbiamo pensare di nuovo a cose come reverenza, umiltà, affetto, familiarità, vicinato, cooperazione, frugalità, appropriatezza e fedeltà locale: ci riporteranno al meglio del nostro patrimonio. Ci riporteranno a casa”. Ed è naturale che nel suo afflato si manifesti la speranza di “una popolazione di custodi della terra connessa ai nostri paesaggi economici di legami di piacere, d’economia, di affetto e di lunga memoria, in possesso dei mezzi culturali e dei giusti imperativi per esercitare una buona cura”. Nella percezione di Wendell Berry, nell’unico mondo che abbiamo “un ecosistema, la rete di relazioni attraverso la quale un luogo e le sue creature si sostengono reciprocamente in vita è, in ultima analisi, misterioso come la vita stessa” e “ogni volta che compiamo una scelta decidiamo per il nostro futuro, e ogni scelta fatta ci coinvolge nel mistero e in una sorta di tragedia”. Gli esempi, partendo dalla realtà del Kentucky, uno stato devastato dallo sfruttamento minerario e dalle colture intensive, sono all’ordine del giorno e Wendell Berry pone l’accento sui costi pagati dalla terra e dagli uomini che l’abitano. Al contrario, se esiste un modo per salvare L’unico mondo che abbiamo è che “tutti i nostri usi del mondo naturale dovranno essere governati dalla volontà di imparare a conoscere la natura di ogni luogo, e di sottoporre lo sfruttamento di ogni luogo ai limiti e alle esigenze della natura”. Detto con maggior convinzione, “le possibilità di un reale miglioramento della nostra vita economica, ossia del nostro modo di vivere per mezzo della terra, giace non solo nello stabilizzare l’occupazione del nostro paese sulle basi di un intelligente attaccamento ai suoi luoghi, ma anche nella comprensione del valore economico di beni intangibili come conoscenza, memoria, familiarità, immaginazione, affetto, comprensione, vicinanza e così via”. Wendell Berry non si limita alla denuncia (doverosa): il suo senso pratico è troppo pronunciato per non sapere che comunque “la responsabilità di un’economia migliore, e di una vita migliore, appartiene a noi come individui e alle nostre comunità”. Sì, il messaggio è semplice: è L’unico mondo che abbiamo, sarebbe meglio considerarlo per quello che è.
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