Nessun nome, nessuna indicazione, ed è giusto così: sapendo di non avere un futuro davanti, avendo perso la moglie, un medico rinuncia a tutto e, con l’unico figlio, accetta l’incarico di lavorare per un imponderabile Censimento. Nel contesto, tanto mistero ha una sua logica stringente perché “la vita è assurda, e davvero non ha senso, è solo una questione di corpi di varia grandezza che entrano in collisione nello spazio, se hanno la fortuna di essere vicini gli uni agli altri”. Il censimento, e, parallelo e contiguo, l’alfabeto delle “città invisibili”, hanno il compito di assecondare una sequenza, di creare un ordine. Non sono solo le tappe obbligate del Censimento: c’è qualcosa di più nel suo succedersi, quasi un’indicazione subliminale. L’etimologia è radicata nella valutazione, nell’identificazione dei valori, nell’annoverare, contare, stimare eppure “il censimento è una specie di crociata nell’ignoto”, e tale rimane fino in fondo, ma prima viene l’alfabeto. L’essenza del codice, delle parole con cui Jesse Ball e tutti noi proviamo a trovare un senso si sviluppa una città dopo l’altra, dove padre e figlio si avventurano immaginando che “il luogo che ti aspetti è davvero lì ad attendere te”. Il diario di bordo è rarefatto: paragrafo per paragrafo, Jesse Ball distilla un’atmosfera che alterna momenti cupissimi e sprazzi di luce, mentre matura l’idea di un passaggio, di una trasformazione, di una metamorfosi, in fondo, la cognizione che “in un modo o nell’altro siamo tutti in cerca di un fardello adatto”. Ogni incontro è un’incognita, ogni porta si apre su uno squarcio di sofferenza, di abbandono, di fatica, rivelando, in definitiva, “l’orrore della nostra vita, l’orrore che ci ha portati qui”: una sorta di via Crucis nei gironi della solitudine (americana) in tante stazioni quante sono le lettere dalla A alla Z. Il punto di non ritorno si può collocare intorno all’episodio di un padre che ha tagliato i pollici al figlio per impedirgli di lavorare nella fabbrica di corde, dove spesso si muore. Ecco, lì si tocca un estremo urticante, e non è l’unico, perché il simbolismo (più mitteleuropeo, che anglosassone) di Jesse Ball prevede molti diversivi lungo la strada: l’ornitologia, la fotografia, la ferrovia, il gioco. Lo stesso Censimento ha in sé qualcosa di biblico (la notte di Natale erano in viaggio proprio per quello) e, più di ogni altro dettaglio, è la soglia a diventare il luogo d’elezione. Il Censimento prevede anche un tatuaggio (questo, in effetti, è un dettaglio inquietante, visti i precedenti storici) e i tatuaggi richiedono qualcosa in più della disponibilità e della vicinanza: sono un’intrusione nel corpo, e addio, privacy. Si capisce che non tutti sono propensi e molti incontri si svolgono proprio sul bordo delle case. Ai due “misuratori” non resta che adeguarsi all’ospitalità, o (spesso) alla sua assenza. Il protagonista al centro è invisibile, speciale (il figlio con la sindrome di Down è ispirato alla vita del fratello di Jesse Ball) e convoglia su di sé la semplicità perduta delle emozioni, ed è lì che il naturale attrito tra censimento e alfabeto diventa un modo per compiere una sorta di collocamento, di ordine, dove l’ordine non c’è. Molto del Censimento avviene proprio sulla soglia dove le reazioni sono imprevedibili, e così è il romanzo, che è molto originale nel mostrare quello che vuol nascondere, e viceversa. Più ci si inoltra, e più si ha l’impressione che si tratti di una serie di incubi, ma con uno sguardo ravvicinato ci si accorge che Censimento è una partita a scacchi con il lettore e lo scacco finale è prevedibile, doloroso, perfetto.
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