Nessuno come Burroughs ha usato lo strumento dell’intervista per modellare i pensieri, non meno che per renderli pubblici, pur sapendo che “la gente cerca di incasellarti. Vogliono ritrovare l’immagine che hanno di te, e se non succede si arrabbiano parecchio. Scrivere è capire quanto puoi avvicinarti a farlo accadere, è questo lo scopo di ogni arte”. L’abilità nell’arte del confronto è manifesta sia nei dialoghi con Allen Ginsberg (il più assiduo tra i suoi interlocutori), David Bowie, Gregory Corso, Timothy Leary, Brion Gysin, Gerard Malanga, Patti Smith o i Devo sia nei casi più frequenti di cronisti e reporter. Erudito, coltissimo, educato, Burroughs resta comunque anarcoide e fuori posto, in definitiva un outsider, ed è sempre molto concentrato, attento a non lasciarsi distrarre, avvinghiato alle sue numerose ossessioni: le armi e la guerra (“La storia di questo pianeta è la storia della guerra”) gli infrasuoni, l’apomorfina, il potere (“Il denaro? L’idea è che se tu ce l’hai, qualcun altro ne ha bisogno. La ricchezza è fondata sulla povertà. Il potere? Anche qui, è qualcosa di cui hai bisogno perché ce l’ha qualcun altro. Se nell’esercito sei un soldato semplice, la situazione è intollerabile, perciò fai del tuo meglio per salire di grado. È una piramide del bisogno. Una piramide del potere”), la tossicodipendenza, la fantascienza, il cut-up, la CIA, il controllo, il pericolo (“Una merce molto rara al giorno d’oggi, ed è stata monopolizzata dalle agenzie di intelligence e dagli stuntmen”), l’imponderabile (“I sogni sono un indizio di come è fatto lo spazio”) e l’imprevedibile (“Niente è inevitabile finché non accade”). Intervista dopo intervista prende forma una sorta di filosofia che predilige il “contatto” invece della “comunicazione”, e, ancora di più, quella “consapevolezza”, condivisa con gli amici e complici della Beat Generation tra Tangeri, Parigi, Londra e New York perché “un aspetto molto importante dell’arte è che rende le persone consapevoli di ciò che sanno e non sanno di sapere. Questo è vero non solo per l’arte, ma per tutte le forme di pensiero creativo. Una volta compiuta la svolta, c’è un’espansione permanente della consapevolezza, ma sulle prime c’è sempre anche una reazione di rabbia, di sdegno”. È un richiamo coerente e reiterato in tutte le Interviste che scorre contiguo (non a caso) all’idea multiforme del virus, inteso in senso biologico e metaforico, ovvero il linguaggio (“Più è puntuale la tua manipolazione o il tuo utilizzo delle parole, più sei conscio di ciò con cui hai a che fare, di cosa sia veramente la parola. E se sai davvero che cos’è, puoi sostituirla”) e il suo peso nelle mutazioni dell’umanità. A quel punto subentra l’interpretazione di un ruolo, a cui Burroughs dedica spesso e volentieri ampie riflessioni, partendo dal fatto che “se uno scrittore non si sforza di dilatare e modificare la propria coscienza e quella dei suoi lettori, non combina molto. Sono proprio le parole, le sequenze di parole, le sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini nel cervello, che ti ancorano al presente, proprio qui dove ci troviamo adesso”. Se da una parte sopravvive una concezione molto individuale (“C’è qualcosa di estremamente privato nello scrivere”), dall’altra si rivela una funzione pubblica, essendo convinto “che siano gli scrittori a scrivere ciò che accade. Facciamocene una ragione, le cose non succedono a meno che qualcuno non le scriva”. Negli stati di alterazione letterari prevale la propensione a identificare linee di fuga e universi paralleli svelando familiarità con Fitzgerald (il più influente), Tennessee Williams, Paul Bowles, Mary McCarthy (che più di tutti comprese l’aspetto “carnevalesco” dei suoi romanzi), Carson McCullers, Jean Genet, Graham Greene e Joseph Conrad, ma anche John Le Carré, Stephen King e Frederick Forsyth. La selezione è molto più ampia, ma va pure ricordata, come fa Burroughs, soprattutto nelle ultime Interviste, la dimensione della pittura, sia con la descrizione degli “shotgun paintings” (i dipinti ottenuti sparando contro un pannello di vernice), sia con le derivazioni stesse della scrittura (“Tutto ciò che scrivo è visivo”) che impongono un’ulteriore approfondimento: “Uno cerca di creare la visione di un essere umano. Certamente, le origini della scrittura, e forse di tutte le arti, erano collegate al magico. Le pitture rupestri, in fondo, sono l’inizio della scrittura. Tieni presente che la parola scritta è un’immagine, noi ce ne dimentichiamo ma non abbiamo una scrittura ideografica. La parola scritta è un’immagine, e pittura e scrittura erano in origine una cosa sola. Lo scopo di quelle pitture era magico, dovevano produrre gli effetti che raffiguravano”. Da allora il bisogno che soddisfa l’arte è rimasto immutato ed è “viaggiare nel tempo e nello spazio”, ovvero ancora la dimensione del sogno, che, Burroughs dixit “è una necessità biologica. Credo di tratti di qualcosa che gli artisti in effetti fanno: sognano per le altre persone”. Le Interviste offrono “tante considerazioni e nessuna conclusione”: la visione anzi la “previsione” di Burroughs, (“Creo il conflitto. Non prendo posizione”) resta straordinaria, coraggiosa e profetica. Tanto che, dopo un po’ (bisogna inoltrarsi in un’intricata giungla di più di mille pagine) viene spontaneo leggere soltanto le risposte.
lunedì 31 dicembre 2018
giovedì 27 dicembre 2018
Larry McMurtry
La rapida e intensiva espansione dell’industria ferroviaria sul finire del diciannovesimo secolo impose un cambiamento radicale, a maggior ragione nei territori lungo il confine con il Messico. L’impetuoso sviluppo, che avrebbe modificato per sempre l’ambiente e i territori americani, non poteva permettersi nessun tipo di inconveniente. I binari delineavano una nuova faccia della nazione dato che “fino a quel momento, la civiltà era stata solo una parola astratta in bocca a predicatori, professori e politici”. Viaggiare con il timore di essere rapinati e/o uccisi era inaccettabile e i fuorilegge erano destinati a diventare residui del passato che non potevano (ovvero, non dovevano) intaccare il progresso e gli investimenti. Woodrow Call viene ingaggiato per tutelare gli interessi del colonnello Terry, un veterano della guerra civile alla guida di una compagnia ferroviaria di New York. I pericoli si chiamano Joey Garza, un giovanissimo e abile razziatore cresciuto tra gli apache, e tale Mox Mox, conosciuto anche come il “bruciacristiani”, per l’abitudine di immolare le sue vittime nei falò in mezzo alla prateria. Ormai anziano, dolorante e tormentato dai fantasmi, Woodrow Call è stato scelto perché “viveva sul confine da quando era nato e, lì sul confine, il capitano era conosciuto come l’aria, o la luna” e la sua missione scatena un movimento tellurico lungo tutto il border. Le strade di Laredo si riempiono di protagonisti singolari in cui Larry McMurtry concentra lo “spettacolo atroce” della frontiera. Hanno tutti un motivo per partire sulle tracce del capitano Call e attraversando in continuazione il confine tra Texas e Messico, marciando e cavalcando in un paesaggio impervio e poverissimo, “chissà come, si era messa in moto una catena di fatti, e i fatti adesso erano sempre più privi di senso, somigliavano sempre meno a quello che doveva succedere nella sua vita”. Woodrow Call, che si è nutrito di violenza per tutta la vita, è solo, anche se circondato da una miriade di personaggi. Il più vicino è Brookshire, un contabile yankee incaricato dal colonnello Terry di tenere ben salda l’amministrazione della missione nella quale troverà il suo destino perché “c’è sempre un viaggio da cui non si torna”. C’è Famous Shoes, la guida che riassume in sé tutte le contraddizioni della corsa verso il West: è legato in modo indissolubile agli elementi naturali e magici, ha mangiato gli occhi di un’aquila nella speranza di acquisirne la vita ed è capace di rifugiarsi nelle tane dei serpenti a sonagli, ma vorrebbe imparare a leggere le “tracce” sui libri ed è anche particolarmente sensibile all’economia di mercato. Si inseguono e si incontrano ramificazioni del passato, i sopravvissuti di Lonesome Dove: Maria (la madre di Joey Garza), a cui il capitano ha sterminato la famiglia, Lorena e Pea Eye, Clara e Bol, Billy Williams e Charlie Goodnight, e gli inevitabili messaggeri di morte. Si distinguono lo sceriffo Joe Doniphan, poi Roy Bean, giudice in una cittadina senza legge, e il leggendario John Wesley Hardin (memorabile il dialogo con Mox Mox). Larry McMurtry sa che “la vita fa diventare tutti strani, se riesci a vivere abbastanza a lungo” e Le strade di Laredo vedono compiersi una moltitudine di metamorfosi nei contrasti tra prede e predatori, uomini e donne, madri e figli che si protraggono fino all’epilogo, costruito con una raffica di brevi paragrafi, quasi una scoppiettante reazione a una lunga e densissima epopea. Comprensiva, va da sé, di Lonesome Dove: conoscere i precedenti non è indispensabile, ma di sicuro senza averlo letto di perde un bel po’ del senso di quello che succede dentro Le strade di Laredo. I rimandi sono continui, alimentati da spettri ingombranti (Gus McRae, ma anche Blue Duck) e dal terreno comune, un universo senza legge e senza giustizia che scorre parallelo al Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Larry McMurtry ha un taglio più cinematografico e meno lirico, ma, non di meno, Lonesome Dove e Le strade di Laredo costituiscono un’opera enorme sul West, e sugli uomini e sulle donne nel corso di un’era caotica e brutale, destinata a scomparire in una nuvola di vapore.
martedì 18 dicembre 2018
Jim Harrison
Il grande capo è il romanzo di “un drogato di ricordi”: Sunderson, il protagonista, deve aver preso la mano a Jim Harrison portandolo a spasso (come se l’identificazione con il personaggio fosse completa, alcol compreso). I rilievi autobiografici compongono soltanto una parte della personalità di Sunderson che riassume in sé i tratti di molti personaggi di Jim Harrison, tra cui gli tormenti di Robert Corvus Strang il protagonista di Luci del Nord e gli appetiti di Nordstrom in L’uomo che rinunciò al suo nome (una delle “leggende dell’autunno”), tutti uomini in bilico, con vite inzuppate d’alcol e consumate fino al midollo. En passant, c’è anche un minuscolo richiamo a Un buon giorno per morire, ma la differenza è che Sunderson è un investigatore della polizia del Michigan, con un matrimonio fallito alle spalle perché “quando si passa tutto il giorno a monitorare i comportamenti peggiori della specie umana si finisce per portare il lavoro a casa”. Gli succede anche negli ultimi giorni della sua carriera quando gli si presenta davanti Il grande capo ovvero ovvero G. C., o Dwight, o Daryl guida una setta che condensa le uniche e impellenti necessità di “sesso, denaro e religione”. Tra i suoi riti di iniziazione (oltre a impossessarsi di percentuali significative dei patrimoni degli adepti), predilige l’abuso di bambine, particolare quest’ultimo che rende Sunderson particolarmente sollecito e reattivo nelle indagini. Solo che, proprio mentre sta cercando le prove e le testimonianze per incastrarlo, per Sunderson scatta l’ora del pensionamento e si ritrova nelle condizioni di affrontare dilemmi rimandati a lungo, a partire dalla scoperta della propria fragilità. Libero di pensare, con la mente “diventata un tavolo da ping-pong”, Sunderson vagheggia tra passioni più o meno innocue (la pesca al salmerino, la ricerca storica) e un’attrazione irresistibile verso l’universo femminile che lo porterà a districarsi tra Roxie, Carla (un’emissaria del grande capo), Lucy, Melissa, Diane (l’ex moglie) e Mona. Quest’ultima, appena sedicenne, è la sua vicina di casa, è stata abbandonata dai genitori ed è molto intraprendente e volitiva. Sunderson nutre sentimenti protettivi nei suoi confronti, ma non può esimersi di lasciarsi sfiorare da un’attrazione tutt’altro che filiale. Il tocco irriverente di Jim Harrison si vede in questi giochi di rifrazione di cui Il grande capo è farcito come un tacchino oversize nel giorno del Ringraziamento, tanto che più ci si addentra nella lettura e più si viene risucchiati nei ghirigori esistenziali di Simon Sunderson. L’inseguimento al leader della setta religiosa, un’occasione fin troppo ghiotta per Jim Harrison per smascherare la ricerca di “una spiritualità artificiosa”, lo porta in Arizona, dove le giovani seguaci gli tendono un agguato a colpi di pietre. La scena della lapidazione è la svolta, e non soltanto per gli inevitabili richiami biblici. Da storico dilettante, Sunderson dovrebbe sapere che, come diceva il citatissimo Bernard DeVoto in A Treasury Of Western Folklore “la storia è l’espressione sociale della geografia e la geografia del West è violenta”. Da quel momento Sunderson comincia a rilanciare le sue attenzioni verso una stramba famiglia (la sua) che va allargandosi, si concede il tempo necessario per esplorare la wilderness nel West e nella Penisola Superiore, riallaccia legami e lascia fiorire piccole e grandi ossessioni letterarie (compresi Gary Snyder, D. H. Lawrence e l’immancabile Hemingway). Senza dimenticare Il grande capo, ma avvicinandosi con cautela, come se a ogni passo dovesse scavalcare i suoi (numerosi) limiti, che uno dopo l’altro, compongono “i detriti della sua mente” L’introspezione e l’indagine si sovrappongono e negli appunti di Sunderson, il suo modo per ritrovare un minimo di lucidità, si coagula un flusso di coscienza che costituisce, nei fatti, un racconto parallelo. Il romanzo è macchinoso, contorto e pantagruelico come i suoi spuntini (“Il miglior sandwich di tutta la sua lunga vita: pane di segale con due grosse fette di di punta di petto di manzo e il cren più piccante del mondo, tanto che dai suoi occhi sgorgavano libere lacrime di dolore e piacere”) o il consumo di whiskey, ma nell’ombra di Sunderson cammina Jim Harrison nello splendore di tutte le sue idiosincrasie americane, finale (spassoso) compreso.
venerdì 14 dicembre 2018
Lee Maynard
Già nell’incipit Lee Maynard anticipa tutto quello che succederà a Crum, dove la vita “era uno spasso, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che traboccano di emozioni, sesso che trabocca di amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto”. Stretta in un fondovalle con gli Appalachi all’orizzonte, Crum è un’enclave ripiegata su se stessa e senza via d’uscita. Le opportunità sono le miniere, e i campi, non molto altro. L’attraversano soltanto una strada e una ferrovia che corrono parallele al fiume: sull’altra riva c’è “il Kentucky, terra misteriosa di stronzi bifolchi”. Non che da questa parte sia tanto diverso. La dimensione urbanistica e demografica di Crum è irrisoria: non c’è niente. Le estati sono noiose e calde e, se nelle altre stagioni cambia la temperatura, il tran tran resta comunque quello e trasmette un senso di immobilità e impotenza. C’è un film, quando capita, c’è la sbronza settimanale, ci sono le prediche della domenica, e c’è la scuola, solo che gli insegnanti sembrano capitati lì per caso e, appena possono, spariscono per sempre. Schiacciati tra la faticosa realtà degli adulti, e i coetanei “maiali del Kentucky” sull’altra riva del fiume, che non esitano a tirare il grilletto dei loro fucili, Jesse Stone e i suoi compagni di avventure vagabondano in cerca di guai, ma spesso e volentieri sono i guai che li trovano. Tutto ruota intorno al sesso e al cibo, dato che la dieta quotidiana è piuttosto limitata. Tra le ragazze si distinguono Ruby, una bellezza inarrivabile, e Yvonne: gli equivoci dovuti all’inesperienza e all’incapacità sono raccontati da Lee Maynard senza alcun filtro, con un linguaggio crudo, grezzo e, in definitiva, onesto nel ricostruire lo slang e l’atmosfera dell’America di provincia negli anni della guerra in Corea, visto che “le storie non accadono per caso, bisogna appropriarsene raccogliendole”. L’insofferenza dei ragazzi è epidermica: gli adulti, nel migliore dei casi li ignorano, come se Crum fosse un posto troppo piccolo per contenere tutti, la conformazione del territorio gli lascia soltanto una sottile striscia di bosco dove potersi nascondere e le limitatissime opzioni di Crum li spingono ad alzare il tiro. Quando l’unica attrattiva di rilievo è la macellazione del maiale, quasi un rito pagano, da cui, se va bene, ci ricavano le vesciche da usare come palle da football, non resta che lo scontro frontale, e i fuochi d’artificio. Cominciano con un elaborato furto di carne, proseguono facendo esplodere un paio di latrine finché non arrivano a una battaglia epica con il reverendo Piney nella notte di Halloween. Non è l’unica autorità presa di mira dalla spavalda combriccola di Jesse Stone. Anche Clyde Prince, “un vero figlio di puttana, che amava andare in giro con la pistola e il minuscolo distintivo a rendere difficile la vita della gente”, sarà oggetto delle loro attenzioni. In effetti, più la moglie, Genna, di lui, che “senza ombra di dubbio era la donna sposata più sensuale di Crum”. Al resto, ci pensa l’immaginazione. A quel punto i bravi cittadini, riuniti in assemblea, concordano che è giunto il momento di ripristinare la quiete pubblica, senza andare troppo per il sottile. Tra l’adeguarsi e il subire non resta molta scelta e per Jesse andarsene è qualcosa di più di una partenza. È lasciarsi alle spalle un mondo e acquisire una sorta di cittadinanza perché “un ragazzo che sale fino in cima a una collina, qualsiasi collina, ha il diritto di aspettarsi di vedere qualcosa”. Laggiù rimane Crum e Jesse riflette che “molte volte la cosa peggiore della tua vita può essere il centro della tua vita, l’unica ragione per andare avanti di giorno in giorno, e quando non c’è più, anche se non ti piace, ti manca”. La scelta di andare Lontano da Crum condensa tutta l’urgenza di trovare uno spazio e un futuro che Lee Maynard tratteggia con arguzia, inseguendo le gesta picaresche di una banda di adolescenti. Amaro ed esilarante nello stesso stesso tempo, sullo sfondo, e in rilievo, lascia intravedere il malessere profondo di un territorio poverissimo, disastrato e abbandonato a un destino sgangherato.
lunedì 10 dicembre 2018
Darryl Ponicsan
I protagonisti che avevano scontato a modo loro L’ultima corvé, il romanzo di Darryl Ponicsan poi diventato il celebre film di Hal Hashby, sono invecchiati, ma non sono cambiati poi di molto. Billy Badass tiene fede al nome che si è guadagnato in marina (l’unico che conti, per loro) ed è una spina nel fianco (per non dire di peggio) per tutti. Mule alias Mulhall si è sposato ed è diventato un pastore. È l’unico ad avere svoltato con decisione, anche se il tempo lo ha segnato (si regge a fatica su due bastoni). Anche Meadows ha provato ad arginare le turbolenze del passato, lasciandosi alle spalle gli anni passati in carcere, solo che si trova ad affrontare il dramma di un figlio che torna dall’Iraq in una bara avvolta nella stars & stripes. Larry Meadows si è arruolato nei marines sull’onda emotiva dell’11 settembre, ma anche per “forgiarsi”. Il padre, memore delle sue esperienze di vita militare, l’aveva sconsigliato e, ora, con i due antichi commilitoni deve andare a prenderlo. Lui e Billy Badass insieme strappano il reverendo Mule dall’intimità del suo focolare e della sua chiesa e insieme ricompongono così il caotico trio. L’arrivo della salma è previsto alla base aerea di Dover, nel Delaware, loro partono dalla Virginia sulla macchina di Billy, che ha visto di sicuro tempi migliori. Il viaggio è un’odissea all’andata e ancora peggio al ritorno: Billy Badass si mantiene vivo e scattante a furia di provocazioni ed è una mina vagante talmente perseverante da coinvolgere nel turpiloquio anche Mule. I tre, già insofferenti in gioventù agli ordini e alla disciplina, si ritrovano a ricordarsi che “la vita militare ti colloca in una posizione dove tutto è possibile, e non in senso positivo”, solo che l’irriverenza di Billy questa volta si tinge di una forte vena polemica, che la sua prosopopea sposa con grande trasporto. Sono in viaggio nel dicembre 2003, nei giorni della cattura di Saddam Hussein, il suo tono è spietato e dissacrante e lui è incontenibile sia con i suoi vecchi amici sia che si trovi al cospetto del colonnello dei marines preposto alle esequie. La guerra con l’Iraq, che ai più risulta incomprensibile, per Billy Badass è un affare di stato mal confezionato: se “i sentimenti riciclati tengono in moto la macchina”, il servizio reso al governo miete vittime su vittime tra i giovani americani e trasforma i sopravvissuti in reduci con poche speranze. L’acredine di Billy Badass, in gran parte ben più che giustificata, è tale da portarlo alla convinzione che “quando smetti di credere a quello che dice il tuo governo, cominci a credere quasi a tutto”. Il paradosso, a leggerlo bene, funziona alla perfezione. Nelle loro disavventure lungo la East Coast i “vecchi compagni di bordo” lasceranno disertare un caporale dei marines incaricato di accompagnarli, scopriranno l’esistenza della telefonia mobile (una scena esilarante), e riusciranno a far intervenire agenti speciali non meglio identificati che, in quei frangenti di totale paranoia e in nome della sicurezza nazionale, gli impediranno di salire su un aereo per tornare a casa. Eppure, nonostante le peripezie, i colpi di testa e i continui scontri verbali propiziati da Billy Badass, riusciranno, ancora una volta, a dare un senso alla loro stralunata missione. L’aggiornamento dei personaggi che avevano reso indimenticabile L’ultima corvé funziona perché Darryl Ponicsan tocca con mano i nervi scoperti delle guerre americane e smaschera, attraverso i suoi dialoghi sferzanti, le ipocrisie del patriottismo e l’ambiguità della vocazione bellica nascosta dietro una bandiera, perché la verità, che erutta dalla linguaccia di Billy Badass, è che “quando sei in battaglia non pensi a una causa. Pensi a rimanere vivo”. Proprio come il suo lontano predecessore, L’ultima bandiera è un romanzo anarcoide, urticante, coraggioso, e nel complesso, irresistibile.
venerdì 7 dicembre 2018
Stephen King
Terry Maitland, allenatore di baseball, football e insegnante di inglese, cittadino rispettabile e benvoluto a Flint City, Oklahoma, viene arrestato davanti al pubblico di un intero stadio. L’accusa è aver rapito, seviziato e infine ucciso un bambino di undici anni: le prove e le testimonianze raccolte dal detective Ralph Anderson sono inoppugnabili e il destino di Coach Terry pare segnato. Lo aspetta un tribunale, il carcere, se non la pena di morte, che nell’Oklahoma resta in vigore. Solo che c’è la classica “goccia di inchiostro” a disturbare la soluzione già scritta: nello stesso momento in cui a Flint City veniva consumato il feroce delitto, Terry Maitland era a Cap City per un incontro letterario con Harlan Coben, primo degli omaggi di Stephen King che comprendono anche (e a ripetizione) Agatha Christie, Edgar Allan Poe e Shakespeare. A quel punto, poiché “la gente è cieca a qualunque spiegazione che esuli dalla sua percezione della realtà”, le indagini si rivelano una tragica commedia degli errori che, oltre ad avere condannato Coach Terry, distruggono Ralph Anderson. Stephen King prende il lettore per la gola partendo da un principio elementare: non è possibile che un essere vivente sia nello stesso tempo in due luoghi diversi e con questo assillo dirige il traffico, con pochi sforzi e molto mestiere, lasciando muovere i personaggi che, si capisce, sono sensibilmente confusi dalle bilocazioni, dalle repentine apparizioni e dagli incubi. Sono anche stressati dagli effetti di un sistema giudiziario che è diventato una burocrazia kafkiana al servizio del potere politico e da strumenti di informazione che ne sono la cassa di risonanza. Sono gli aspetti principali su cui The Outsider sviluppa quei primi capitoli che brancolano nei dubbi e/o nel rifiuto di credere a realtà parallele. Con l’entrata in scena, non rimandabile, dell’elemento soprannaturale, il contrasto si posta da un piano giuridico e poliziesco a uno filosofico, perché ci sono infiniti universi che si contorcono nell’estate americana. Accettata, fino a prova contraria, l’esistenza di doppelgänger in grado di vivere esperienze extracorporee, attorno a Ralph Anderson si coagula un’eterogenea comitiva che comprende un poliziotto di origini messicane, un’investigatrice ipocondriaca, un’avvocato di rango e il suo assistente che si scontrano con resistenze che sono molto più reali che ultraterrene (compreso un agente intossicato, alcolizzato e vendicativo). La composizione del team ricorda la squadra di It e al pari del suo capolavoro Stephen King farcisce una storia a effetto con un fitto ordito di richiami alla cultura popolare: il baseball (con la scena dell’arresto di Terry Maitland, con un palla in volo come se fosse l’incipit di Underworld di Don DeLillo), l’onnipresente rock’n’roll (sia lodato), questa volta sul versante della British Invasion, dai Beatles agli Animals, e più di tutto la figura di El Cuco, l’uomo nero d’importazione messicana, dietro cui si nasconde The Outsider. Tutti ingredienti che rendono il romanzo colorito e leggero, proprio mentre il suo tema trainante è oscuro e terrificante. Scovato il mostro, che condensa paure e leggende ancestrali, si scopre che è molto più umano nei suoi appetiti e nei suoi bisogni. L’outsider è tale in senso antropologico. Non è un essere vivente, anche ne assume le sembianze. Non è uno spirito, per quanto riassuma in sé leggende e paure. È vivo, e si nutre di morte, ovvero di tristezza. Potrebbe avere una sua collocazione nell’ecosistema generale se non fosse che condensa attitudini più che sconvenienti: è sadico, pedofilo, cannibale, impotente ed esibizionista, qualità quest’ultima che si rivelerà il suo lato debole. Ma vuole solo sopravvivere e non fa altro che premere sulle paure, sulle ipocrisie e sul fatto che “la realtà è uno strato di ghiaccio sottile, ma quasi tutta la gente ci pattina sopra tranquillamente e il ghiaccio si rompe solo alla fine”. Il racconto è incalzante e la storia si evolve come una figura che emerge dopo aver collegato tutti i punti di una trama invisibile. Non ci sono veri e propri colpi di scena, a parte l’inizio al fulmicotone dove, in effetti, succede tutto, ma la sequenza è sincopata e serrata e, una spira dopo l’altra, Stephen King avvolge il lettore in un’atmosfera di interrogativi e questioni irrisolte. Compresa l’evoluzione digitale che, nell’intreccio complessivo, e scena per scena, assume un ruolo interessante: i gingilli che i personaggi hanno a disposizione alla fine valgono più delle armi che proliferano in Texas. Forse è un messaggio subliminale dello stesso Stephen King (in effetti chi usa una pistola o un fucile qui non fa una bella fine) che invece è chiarissimo fin dall’incipit perché anche a Flint City “le regole erano semplici: quando arrivano gli sbirri, meglio andarsene. La vita di un nero è importante, gli avevano spiegato i genitori, ma non sempre per la polizia”. The Outsider è spaventoso non solo per l’assenza di morale del suo famelico e cupissimo protagonista, ma perché ci ricorda che è la realtà a farci paura.
martedì 4 dicembre 2018
Jerome Charyn
All’apice dell’età del jazz, Francis Scott e Zelda Fitzgerald scrivono che “il successo era l’obiettivo di quella generazione che, almeno in parte, l’ha ottenuto e ora ci azzardiamo a dire che, in una confessione intima, nove su dieci ammetterebbero che il successo è solo un ornamento che desideravano indossare: ciò che davvero volevano era qualcosa di più profondo e di più intenso”. Sono gli epigoni di un’epoca: “sembravano appena usciti dal sole. La loro freschezza era straordinaria. Tutti volevano conoscerli” ha scritto Dorothy Parker e il luogo deputato a celebrarli era proprio Broadway che, nella sua sconsideratezza, viene annunciata così da Jerome Charyn: “Ciò che la deliziava erano le superfici e le strutture più che i significati. Joseph Urban costruì scalinate, non manifesti. E Broadway visse in un esuberante turbine di energia, in una cartellonistica che illuminò la notte, e in un ordine sociale che includeva residence e pensioni, gastronomie e palazzi del vaudeville, locali notturni e cabaret, dove si poteva incontrare ballerine di fila che lottavano per emergere, attrici in pensione che tossivano con violenza in una stanza di fronte a un muro, Jack Johnson che si allenava con la sua ombra in uno scantinato, Babe Ruth che si aggirava nel suo pastrano di pelle d’orso, Billy Rose che assomigliava a un gangster, ganster che assomigliavano al presidente della Paramount Pictures, commesse con tanto di cappello a cloche, veterani della grande guerra tuttora avvolti nelle loro molletterie, detective come Johnny Broderick che una volta aveva ficcato Legs Diamond dentro un bidone della spazzatura, erano tutti elementi di una melodia che fioriva nell’oscurità, che sarebbe stata imitata dappertutto, finché nessuno sarebbe più stato in grado di distinguere la realtà dalla finzione”. La ricca descrizione è eloquente nel definire Broadway: la scrittura di Jerome Charyn è sincopata, influenzata dal ritmo del jazz e dalla frenesia dei gangster, dalle atmosfere notturne e dalle vite arrembanti dei protagonisti che, oltre a Scott e Zelda, sono Damon Runyon (“un outsider desideroso di crearsi una seconda pelle, la pelle di Broadway”), Babe Ruth, Irving Berlin, Jack Johnson, Bessie Smith, Charlie Chaplin, Orson Welles. Le biografie si incastrano una nell’altra, senza soluzione di continuità, concentrando Broadway al centro del fermento delle gang di New York. Si tratta, secondo William R. Taylor, di “un mondo fatto quasi interamente di voci” dove la fame di successo tendeva a sorvolare le imposizioni della legge. I bootlegger prosperavano, le Ziegfeld Follies brillavano, nel vaudeville “il pubblico aveva la sensazione che ogni spettacolo venisse creato appositamente per lui”, le chiacchiere e il giornalismo consumavano relazioni ambigue, i musicisti crollavano, ma la musica non finiva e “Broadway era terra di nessuno, non era East e non era West. Consumava il tuo passato e la tua tradizione”. In quel vacuum temporale, l’incombente senso di pericolo e di eccitazione, che Il grande Gatsby condensava ai limiti della leggenda, è il vero “tratto distintivo” di Broadway, insieme alla sua folle effervescenza. Nella sua appassionata ricostruzione, Jerome Charyn non dimentica di sottolineare i passaggi violenti, brutali e razzisti di cui è disseminata “la nascita di un mito”, così come è molto accorto nel ricordare che “la storia dispone di una sua strana moneta grazie alla quale tutto può essere barattato, e i personaggi possono apparire e sparire per poi apparire di nuovo in un allestimento scenico che fluttua a seconda delle necessità e della musica di ciascun momento particolare”. È teatro, è spettacolo, è vita nelle strade, l’inganno è la norma. Molto bella la coda finale dove Jerome Charyn si ritrova a camminare, appena dopo l’11 settembre 2001, in una Broadway “anemica”, diventata un territorio punteggiato da richiami per turisti e privato di tutta la sua selvaggia bellezza.