Premesso che Dylan ha trasformato il conferimento del premio Nobel in un happening della Beat Generation (compresa l’emozionantissima Patti Smith), nell’incredulità, nella meraviglia e nello stupore, con cui l’ha ricevuto va trovato il primo germe delle risposte ufficiali raccolte in The Nobel Lecture. Quando dice che si tratta di “una cosa che va al di là delle parole”, si rivela ancora una volta sorprendente in tutti i suoi amletici dubbi. Il tentativo di renderli pubblici, se non proprio di sviscerarli, nella “lecture” vera e propria, parte proprio da Shakespeare, perché come diceva Ralph Waldo Emerson “la sua mente è l’orizzonte oltre il quale, al momento attuale, non vediamo”. L’influenza, inevitabile, passa, secondo Dylan, nel distinguere tutte le sfumature, nell’imparare i dettagli, e nel “concedersi” di sognare, un proposito che trova l’humus ideale per e con la letteratura. I tre libri messi al centro dell’attenzione da Dylan sottolineano un’idea di un conflitto continuo che va ben oltre il tentativo di ricondurlo su un piano intelligibile anzi, piuttosto con l’idea di espanderlo verso “nulla di davvero razionale”. Ed è contigua e parallela la condizione del viaggio, di un’eterna transazione, di un esilio mascherato che comincia con Moby Dick. Il motivo potrebbe spiegarlo Harol Bloom: “In Moby Dick e nel capitano Achab si scontrano a viso aperto due poteri, o agenti (per usare il termine di Angus Fletcher), demonici. L’intervento demonico è la tradizione nascosta della letteratura americana, un’affermazione più chiara se riferita alla narrativa (Poe, Melville, Hawthorne, Twain, James Faulkner) che alla scrittura sapienza (Emerson, Thoreau) o alla poesia (Whitman, Dickinson, Frost, Stevens, Eliot, Hart Crane). Nella narrativa, i personaggi sono posseduti da demoni, conquistatori che in qualche modo mettono ordine in un caos di altri io indisciplinati. La creazione lirica e saggistica di immagini diventa un metodo per ordinare l’io autobiografico in suoni più sottili, demarcazioni più spettrali”. L’idea del “demone” non gli è mai stata estranea, almeno quanto una vicinanza alla realtà del “political world” che nell’immenso songwriting dylaniano si è tradotto attraverso i suoi “principi, una sensibilità e una certa consapevolezza del mondo”. Un ruolo a maturare quella percezione che porterà Bob Dylan nei libri di storia (molto prima del Nobel) l’ha avuto Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il romanzo di Erich Paul Remark alias Erich Maria Remarque, ha convinto Dylan che “la guerra non ha limiti”, ma per comprendere l’immane frattura del primo conflitto mondiale, che in La bellezza e l’orrore Peter Englund definisce “un universo emotivo”, occorre rileggere quello che, nelle stesse pagine, scriveva René Arnaud: “In tempo di guerra la sofferenza mentale peggiore è quando il pensiero precorre l’azione, il gioco irrefrenabile dell’immaginazione che dà forma in anticipo ai pericoli e li moltiplica. È noto che la paura del pericolo è più snervante del pericolo stesso, come il desiderio è più inebriante del suo appagamento”. I veri demoni del genere umano passano in quelle trincee. Rimane l’Odissea, che in sé riassume gli altri due volumi: c’è il mare, il viaggio, le battaglie, soprattutto l’idea omerica di una storia cantata, a cui Dylan si ricollega per una sua autobiografica esegesi. Sintetica e conclusiva quando dice, con molta semplicità: “Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che importa. Io non so qual è il significato di una canzone, ho scritto qualunque cosa nelle mie canzoni e di sicuro non mi preoccupo di quale sia il loro significato”. Il discorso di The Nobel Lecture è un po’ tortuoso, ma ne vale la pena perché quello di Dylan è un canone a parte e chiedersi se è letteratura (o non lo è) è una speculazione limitante (certo che lo è), salvo voler relegare la letteratura all’accademia e ai topi da biblioteca e il Nobel a un ruolo di custodia che non ha mai avuto. La bizzarria imposta da Dylan a tutto il processo non è stata soltanto folklore, quanto un modo di liberarsi di un peso, di smaltire la sorpresa, di concedersi una via di fuga sempre nella convinzione “che la prima regola per chi vuole essere sovversivo è di non far sapere a nessuno che sei sovversivo”. Inafferrabile.
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