L’antologia
di saggi raccolta in Se vi pare che questo mondo sia brutto è
una piccola porzione della percezione di Philip Dick, ma tocca e
approfondisce uno dei temi più sensibili, il rapporto tra l’umanità
e lo sviluppo tecnologico. I primi due capitoli, in particolare
L’androide e l’umano e la sua successiva propaggine, Uomo,
androide e macchina, che risalgono rispettivamente al 1972 e al
1976, rivolgono l’attenzione a quell’incognita che si manifesta
con “una qualità meccanica, riflessa”. Philip Dick è esplicito
nel manifestare i suoi dubbi davanti l’evoluzione a tappe forzate
del cosiddetto progresso perché “forse, in realtà, stiamo
assistendo a una graduale fusione della natura generale delle
attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di
ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui siamo circondati”. La
sa disanima dell’androide, che “come ogni altra macchina, deve
funzionare al momento giusto”, è acuta e decisiva. Philip Dick si
rende conto che “queste costruzioni non imitano gli umani: per
molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già umane”.
Questo sdoppiamento è un elemento politico stringente perché
“l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto,
prevedibilità”. Quello che mancava a George Orwell in
termini di dettagli specifici, si trova in Philip Dick, nelle forme
di un disappunto per sia aver sbagliato profezie (“Ecco l’orribile
società tecnologica, che era il nostro sogno, la nostra visione del
futuro. Non siamo riusciti a immaginare nulla di abbastanza potente,
astuto o altro, che potesse impedire l’avvento di quella terribile
società da incubo”) sia per averle enunciate fin troppo bene
(“L’ininterrotta preparazione della tirannia di stato, che nei
circoli fantascientifici, con la nostra insistenza sull’avvento
della società antiutopica, abbiamo previsto per il mondo di domani,
quest’aumento dell’invadenza dello stato nella vita privata
dell’individuo, questo voler sapere tutto sul conto della persona
e, una volta saputo, o convinti di essere venuti a sapere, qualcosa
che può costituire una minaccia per lo stato, questo potere di
annientare l’individuo; insomma, tutto questo processo, come
facilmente si comprende, si serve della tecnologia come strumento”).
Se vi pare che questo mondo sia brutto contiene molto altro:
un arguto ritratto dal vivo del romanziere e dei suoi compiti, nel
saggio omonimo del 1977 e da lì una gimkana attraverso le possibili
soluzioni della realtà “quella cosa che,
anche se si smette di credervi, non scompare”. Premesso che “il
mondo del futuro, per me, non è un luogo, bensì un evento. Una
costruzione, ma non di un autore che usi le parole per scrivere un
romanzo o un racconto davanti a cui si possa semplicemente sedersi e
mettersi a leggere; una costruzione in cui non vi siano autore e
lettori, bensì un gran numero di personaggi in cerca di una trama”,
Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni,
un brano scritto nel 1978 e aggiornato nel 1985 torna sull’invadenza
della tecnologia, con maggior attenzione alle sue applicazione negli
strumenti di comunicazione. Se, fra tutti, “la visione televisiva è
una specie di apprendimento in stato di sonno”, il rimedio secondo
Philip Dick è non smettere di domandarsi cosa è reale “perché
siamo incessantemente bombardati da pseudorealtà prodotte da gente
estremamente sofisticata che adopera dispositivi elettronici
altrettanto sofisticati. Non diffido dei loro moventi. Diffido del
loro potere. Ne hanno moltissimo. Diffido dello stupefacente potere
di creare universi, universi della mente”. Qui entra in scena
l’ultima parte, Cosmogonia e
cosmologia che nelle sue
elaborazioni filosofiche non fa che confermare che “l’assenza
di qualcosa di vivo” resta “l’aspetto orrorifico, la visione
apocalittica di un futuro da incubo”. Non siamo molto lontani.
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