“Sei
un uomo?” chiede un bambino affamato e solitario all’essere
stremato e impolverato che sta risalendo la collina. Non c’è posto
per gli eroi nelle cronache belliche di Stephen Crane, non c’è
alcuna celebrazione degli atti di valore, anche quando sono
sconsiderati e o disinteressati. Il più delle volte scoprono
situazioni surreali, paradossali o semplicemente folli. Cambiano i
fronti, da Cuba alla Grecia alla guerra civile americana, ma
l’impressione è come se “l’umanità intera stesse scappando in
un’unica direzione, troncati tutti i legami che ci uniscono alla
terra”. Stephen Crane vede il delirio degli uomini in guerra e lo
racconta a distanza ravvicinata, e non solo: sembra percepire con
spiccata sensibilità le emozioni più intime e profonde, o almeno
quello che ne resta perché “il gran carnevale del dolore” lascia
attoniti, ammutoliti, privi di ogni forza. Quando si ha la certezza
che “la sconfitta è morte, a meno che non si verifichi un
miracolo” non resta molto, e Stephen Crane narra la partecipazione
e lo stupore, che rimane inalterato anche dopo pagine e pagine sangue
e fango, per la trasformazione degli esseri viventi in un’altra
materia, molto simile alla terra, come se fossero già morti e
inumati, senza rendersene conto. Questa visione è esplicita
nell’incipit di Un mistero di eroismo: dettaglio di una
battaglia americana: “Le uniformi scure degli uomini erano così
impolverate per i combattimenti incessanti tra i due eserciti che il
reggimento sembrava quasi parte dell’argine di argilla che lo
proteggeva dalle granate. In cima alla collina una batteria litigava
con altri cannoni lanciando tremendi ruggiti, e la fanteria poteva
scorgere nitidamente delineati contro il cielo blu gli artiglieri, i
cassoni e i cavalli. Quando veniva sparato un pezzo d’artiglieria,
una striscia rossa rotonda come un tronco guizzava bassa nel cielo,
simile a un lampo mostruoso”. L’acuto senso per “la meraviglia
della tragedia umana” di Stephen Crane si rivela proprio in quei
minuscoli dettagli che si stagliano prepotenti nei racconti. Un
bottone insanguinato in La faccia in su mette a rischio la
sepoltura di un ufficiale, la postura irregolare di una sentinella
scatena il terrore in Il manicomio privato del sergente,
l’acqua che entra troppo lentamente nella borraccia ancora in Un
mistero di eroismo: dettaglio di una battaglia americana, i
puledri intrappolati nelle fiamme in Il veterano, un canto che
risuona all’improvviso nell’oscurità del campo di battaglia, una
preghiera ricordata a fatica sotto il fuoco incrociato del nemico,
l’insensatezza degli ordini superiori, l’amputazione del braccio
di un tenente come se fosse la normalità nella logica estensione
della ferocia dei combattimenti: nelle storie di La morte e il
bambino non c’è nessuna gloria, nessun riconoscimento,
imperversano soltanto paura, disperazione, distruzione finché la
pazzia non appare come l’unica via di fuga praticabile. A quel
punto la risposta alla domanda del bambino che vede arrancare
qualcosa sul pendio, sgorga spontanea dai reportage di Stephen Crane:
è “solo un soldato, senza più nulla di umano”.
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