Philip K. Dick ha svolto
un ruolo fondamentale nell’immaginario della seconda metà del
ventesimo secolo e la sua influenza non si è ancora esaurita, anzi.
Le sue visioni hanno anticipato soluzioni scientifiche e catastrofi
tecnologiche, con punte di vera e propria profezia (come scriveva nel
1981 in Predizioni: “1985. Intorno a questa data, o prima, si
verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in
Unione Sovietica o negli Stati Uniti, in seguito al quale verranno
chiuse tutte le centrali nucleari”) e interpretando con ammirevole
lungimiranza argomenti di straordinaria complessità (e oggi
d’attualità) quali la manipolazione genetica o la clonazione.
Mutazioni è una raccolta ricca ed eterogenea, eppure molto valida
nel rappresentare le forme del pensiero di Philip Dick, che si
considerava narratore almeno quanto filosofo. La varietà delle forme
contenute, dall’intervista alla recensione (tra i più citati
Theodore Sturgeon, ammiratissimo, Ray Bradbury, Jules Verne, Harlan
Ellison, ma anche songwriter come Jim Croce e Don McLean), dalle
trame per romanzi in embrione alle bozze di alcuni capitoli,
rappresentano con efficacia il percorso umano, intellettuale e
letterario di Philip K. Dick che non è stato soltanto un
(grandissimo) scrittore di fantascienza, ma uno sperimentatore a
tutto campo. La convinzione partiva dall’inizio, dall’idea in sé:
“Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del
romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento
particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. Ha avuto
davvero la forza di immaginarsi altri mondi, e di tradurli in una
scrittura densa, particolareggiata, florida e motivata. Non ha avuto
la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o
semplicemente razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi,
come ampie parti di Mutazioni confermano, si è prodigato nello
studio, nell’analisi e nella ricerca per consolidare le fondamenta
dei suoi viaggi psichedelici. Convinto che “la fantascienza
presenta in forma narrativa una visione eccentrica della normalità o
una visione normale di un mondo che non è il nostro”, si è
distinto come outsider e dissidente perché, come recita una delle
note biografiche riportate da Mutazioni: “Nei suoi romanzi cerca di
dar voce soprattutto alla lotta contro tutte le forme di oppressione
del libero spirito umano: qualsiasi tirannia, dall’assuefazione
alle droghe allo stato di polizia, alle tecnologie per la
manipolazione delle coscienze. Il cittadino comune, privo di potere
economico e politico, è l’eroe di tutti i suoi romanzi, oltre a
essere il suo eroe personale, e la sua speranza per il futuro”.
Anche nascosto tra androidi e viaggi nel tempo e allucinazioni
assortite, è sempre quello il tema ricorrente nei romanzi di Philip
Dick nella convinzione che “l’uomo continuerà a fare piani e a
tramare anche tra le rovine: il suono della sua voce si farà sempre
risentire”. Mutazioni, pur nella limitatezza dell’approfondimento
offre una visione completa delle diverse aspirazioni di Philip K.
Dick, della della sua lucida follia, della sua voce incomparabile,
non è nemmeno tutto. L’immagine di Philip K. Dick che scrive in
continuazione, senza sosta, per sbarcare il lunario (“Ho scritto e
venduto ventitré romanzi, e sono tutti orribili, tranne uno. Ma non
so di preciso quale sia”) è forse il suo ritratto più romantico,
e sincero, che lui traduceva così: “Ecco come sono: paralizzato
dall’immaginazione”. Una definizione perfetta, a cui si può
aggiungere solo quello che scriveva Paul Williams nel 1969: “Vi
dirò... Philip K. Dick avrà, sulla coscienza di questo secolo, più
influenza di William Faulkner, Norman Mailer o Kurt Vonnegut”. Se
non altro, è in bella compagnia.
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