Nella
perfezione dell’incipit, Il cielo è dei
violenti trova subito una collocazione
precisa e inevitabile: l’ambientazione rurale (il campo di
granoturco), la povertà come una condizione rigida, in cui si svolge
tutto, in particolare dove “Tarwater portava il suo isolamento come
una cappa, se l’avvolgeva addosso quasi fosse un segno distintivo
di elezione”. Tarwater è cresciuto con un vecchio ossessionato
dalla fede e dalle sue visioni che, alla sua morte, ricorda solo che
un profeta serve “a riconoscere che qualcuno è un asino o una
puttana”. Flannery O’Connor è (quasi) blasfema quando dice che
“il mondo è stato creato per i morti”, ma d’altra parte è
altrettanto credibile quando ne consegue che: a) “nessuno è più
povero dei morti”, e che, soprattutto, b): “ci sono un milione di
volte più morti che vivi, e i morti restano morti milioni d’anni
più di quanto i vivi restino vivi”. Ecco che Tarwater prova a
“scavare la fossa sotto il fico perché il vecchio avrebbe fatto
bene ai fichi”, ma non riuscendo a completare l’opera, incendia
la misera casupola in mezzo ai boschi, con il cadavere e i suoi ormai
inutili arnesi. Quando bussa alla porta di Rayber, il maestro che
vive con Bishop, un figlio menomato, sgorga un complessa
triangolazione tra l’ombra del vecchio, il maestro e lo stesso
Tarwater, su cui grava il rilevante peso di scelte inevitabili, delle
costrizioni della vita e di un feroce scontro tra fede e ragione, tra
mistero e dubbio. Il cielo è violento
è un capolavoro livido ed estremo: le contorsioni di un linguaggio
umile, economico, con un vocabolario limitato, eppure espressivo e
fortissimo nel rappresentare i contrasti tra i protagonisti almeno
quanto i loro conflitti interiori. “Sono soltanto parole”, ma le
profezie (da un parte) non meno dei test e delle analisi (dall’altra)
conducono alla privazione, allo strazio, alla follia e nella
costruzione di Flannery O’Connor hanno una forza ipnotica, proprio
nel suo calibrare i passaggi dei personaggi, la lunga discesa nelle
tenebre dove, una volta di più, sono ancora gli opposti (l’acqua e
il fuoco) che si sviluppano, simbolici e teatrali, a sottolineare i
paesaggi nel finale. E’ risoluta, convinta, decisa, Flannery
O’Connor nel seguire i protagonisti, scrupolosa nel sottolinearne i
difetti e le idiosincrasie. Non gli concede nulla, perché sono
combattuti, divisi e piegati, ma li accompagna e li asseconda,
spiegandone così i motivi portanti delle loro caratteristiche: “Non
mi interessano le sette religiose in quanto tali. Quello che mi
interessa è l’individuo religioso, il profeta dei boschi. L’eroe
de Il cielo è dei violenti
è il vecchio Tarwater, e io sono con lui al cento per cento”.
Tarwater ha un’intelligenza limitata (anzi, concentrata) e
sofferente, come se l’istinto di sopravvivenza fosse frutto di un
lento apprendimento ed è la migliore espressione di quella che
Flannery O’Connor chiama “l’atroce chiarezza”. La violenza è
scandita attraverso i dialoghi, in particolare quelli tra Rayber e
Tarwater, che sono sferzanti. Quando Rayber dice a Tarwater: “Io ti
ho salvato perché tu fossi libero, perché fossi te stesso e non
un’informazione dentro la tua testa”, compie un primo, decisivo
passo verso la dissoluzione di entrambi. “Pensi della scatola o
nella testa?” chiede Tarwater, e la domanda è ambivalente perché
è rivolta a Rayber, che ha bisogno di un apparecchio acustico per
sentire, ma nasconde una perfida e sottile allusione al figlio. Con
matematica precisione, Flannery O’Connor associa alle tre figure
centrali e stanziali, altrettanti personaggi secondari. Il primo
viaggiatore, il rappresentante di tubi ovvero Meeks, giunge ben
presto alla conclusione che Tarwater era “abbastanza suonato e
abbastanza ignorante da essere un buon lavoratore, e lui aveva
bisogno di un ragazzo energico e molto ignorante da metter sotto a
lavorare”. Notare, en passant, l’uso delle reiterazioni, come uno
schiocco di dita per tenere sveglio il lettore. Ci saranno altri due
incontri di Tarwater nella sfumatura conclusiva che incupisce Il
cielo è dei violenti: il camionista che,
indifferente, si addormenta sul bordo della strada e l’autista che
lo deruba e ne abusa, proprio ai confini della radura dove il rogo ha
bruciato il vecchio e la sua tragica dimora. Non resta nulla, non un
pensiero, non una preghiera. Cala il sipario, buio, silenzio.
Nessun commento:
Posta un commento