L’idea
di Un conto ancora aperto nasce dalla convinzione che alla
fonte del razzismo ci sia la speculazione economica e che, con il
trascorrere dei decenni e poi dei secoli, causa ed effetto (la
speculazione e il razzismo) siano diventati intercambiabili. E’ il
motivo per cui Un conto ancora aperto prende le distanze con
molta chiarezza dall’illusoria possibilità di riconciliazione
senza risarcimento. Una posizione che è implicita già nello
svolgimento del sottotitolo. Quando Ta-Nehisi Coates si chiede Quanto
valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?, non è per niente
una domanda retorica. La quantificazione del danno, riconosciuta come
diritto a partire da John Locke, è un argomento che ha solide
fondamenta. Il furto è concreto e continuato nel tempo, attraverso
formule più subdole, raffinate e meno esplicite della schiavitù, ma
pur sempre efficaci, e a senso unico. Non solo: come succede nel
primo caso raccontato da Ta-Nehisi Coates, quello di Clyde Ross, la
distorsione e l’assenza dei diritti lo spingono al punto di
rendersi conto che “non viveva sotto lo sguardo bendato della
giustizia, ma sotto l’oppressione di un regime che aveva elevato la
rapina armata a principio di governo”. Le osservazioni sono
radicali perché la condizione è estrema: la depredazione e la
conseguente distruzione di un popolo generano una percezione sfasata
perché, spiega Ta-Nehisi Coates, “in realtà, in America c’è la
bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte
smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il
coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un
passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare
soltanto distogliendo lo sguardo”. E’ evidente che c’è proprio
Un conto ancora aperto e lo sforzo maggiore compiuto da
Ta-Nehisi Coates è insieme un grido di dolore e di allarme perché
“non possiamo fuggire dalla nostra storia. Tutte le soluzioni che
abbiamo sperimentato per risolvere grandi problemi come l’assistenza
sanitaria, l’istruzione, il diritto alla casa e le diseguaglianze
economiche, pagano il prezzo di ciò che non si vuole ammettere”.
Ta-Nehisi Coates parte da casi espliciti ed esemplari prima di
avvalersi degli strumenti statistici, che sono sempre fluttuanti e
hanno bisogno di una giusta collocazione, ma Un conto ancora
aperto non deve difendere una teoria, una ricostruzione,
un’opinione: il danno compiuto è conclamato, perché gli esseri
umani ridotti in schiavitù sono stati trattati e organizzati come
merci. Ricorda lo storico David W. Blight: “Nel 1860 gli schiavi
come bene patrimoniale valevano più di tutte le produzioni
manifatturiere, più dell’intera rete ferroviaria e dell’intera
capacità produttiva di tutti gli Stati Uniti messi insieme. Gli
schiavi erano di gran lunga il bene di proprietà più importante
dell’intera economia americana”. Questo vuol dire un’immane
sofferenza perché trattare uomini e donne come parti di ricambio
vuol dire distruggere le comunità e “separare una famiglia di
schiavi equivaleva di fatto a un assassinio. Ecco dove affondano le
loro radici la ricchezza e la democrazia americane: nella lucrosa
distruzione del bene più importante a cui ogni individuo possa
aspirare, la famiglia. Questa distruzione non è stata un elemento
incidentale nell’ascesa dell’America: l’ha facilitata.
Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha
potuto gettare le basi economiche per il suo grande esperimento
democratico”. Riconoscere l’esigenza di un risarcimento sarebbe
(il condizionale è d’obbligo) un decisivo cambio di prospettiva,
anche se il saldo finale, per la civiltà tutta, resta negativo.
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