E’ la
primavera del 1992 a Los Angeles, e “tanto per cominciare, non
c’era nessuna città”, come dirà qualche anno più tardi Sam
Shepard. Lì, in quel momento, in un immenso vuoto pieno di
esseri umani, due antefatti segnano la direzione irrevocabile di una linea
spaventosa. Agli inizi di marzo, Rodney King, un tassista
afroamericano, viene fermato e massacrato a colpi di manganello da
alcune pattuglie del dipartimento di polizia di Los Angeles. Un
filmaker amatoriale riprende tutta la scena. Quattro agenti vengono
inquisiti e processati in un crescente clima di tensione. Poche ore
dopo la lettura del verdetto di assoluzione, alle 15.15 del 29 aprile
1992, cominciano i Giorni di fuoco.
Un mondo di una violenza assurda, portato in superficie dalle
rivolte, comincia proprio dal linguaggio, come ricordava anche
il maggiore James D. Delk, comandante della guardia nazionale: “La
polizia diceva ai membri delle gang che anche la guardia nazionale
era una gang, ma molto, molto più grande. Pensavano che questo era
un linguaggio che potevano capire”. Le cronache sono troppo
efferate e spietate per svincolare dalla realtà e Ryan Gattis mostra
un bel coraggio nel cercare di trasformare quella che in buona
sostanza è una storia orale in un romanzo compiuto. L’intervento
narrativo e stilistico è minimo e si concentra tutto nella ruvidità
della forma e nell’articolazione delle connessioni tra i numerosi
protagonisti, collegati da un’invisibile trama che segue gli
sguardi per strada. Il background di Giorni di
fuoco è lampante: gli scontri sono stati
soltanto la scintilla che ha fatto deflagrare tutta una “geografia
della paura”, come Mike Davis ha definito la mappa di Los Angels ed è evidente che una convivenza dignitosa fosse complicata (se non impossibile) prima dell'affaire Rodney King ed è rimasta tale negli anni successivi. In modo molto più prosaico uno dei protagonisti dei Giorni
di fuoco la descrive così: “E’ grande
come non so cosa ma gli abitanti stanno nei loro ghetti dove si parla
soltanto spagnolo o etiope o quel che è. E’ come se ogni razza
fosse un pugile all’angolo, e quando succede così, quando hai
questa mentalità, è facile vedere tutti gli altri come degli
avversari, qualcuno da battere perché se non lo fai non ottieni la
sua parte. Non ti becchi il premio, capisci? E forse è tutto qui,
come si dice, in sostanza. Prendi un sacco di gente da tutte le parti
del mondo, li sbatti nei loro ghetti e non gli permetti di mescolarsi
né di capirci niente, e tutti hanno in testa soltanto di competere,
perché, merda, chiunque a L.A. è sempre in lotta contro tutti e
tutto”. Ryan Gattis rende “straordinariamente vivida”, secondo un’utile
definizione di Joyce Carol Oates, quella che è una resa dei conti
molecolare, proprio lì, dove il luogo comune di guerra senza
quartiere diventa una brutale realtà. Il territorio disseminato di
gang con una definizione di ruoli (militari e civili) ben precisa
vede un’occasione imperdibile nella “libertà di questi giorni”,
dove per libertà s’intende il caos. Scattano le faide (in effetti
sarebbe questa la definizione giusta) tra una formazione e l’altra,
esplodono i conflitti etnici (e non), si consumano le vendette e i
tradimenti. Per attaccare o per difendersi, la differenza si perde
nelle strade, e diventa persino ovvio che, come dice uno dei
protagonisti, “c’è un’altra America nascosta dietro l’immagine
che presentiamo al mondo”. Giorni di fuoco
aggiunge qualcosa in più: gli attacchi ai pompieri, i saccheggi e le
sparatorie, gli incendi e le devastazioni e, d’altra parte,
l’intervento massiccio dell’esercito, evidenziano formulazioni
impreviste e imprevedibili della legge imposta con le armi. A quel
punto, come scriveva Joseph Brodsky nel 1978 “la geografia
combinata col tempo equivale al destino” e nei Giorni
di fuoco va in scena una guerra civile di sei
giorni, un’apocalisse tutta americana, con l’aggiunta della
diretta televisiva che rimanda le immagini in un loop infinito e
senza scampo. Non è un caso che uno dei commenti finali di Giorni
di fuoco reciti: “Non voglio vedere i
notiziari. Voglio solo stare in pace”. Forse ci vuole un’altra
geografia, o un altro destino.
giovedì 28 aprile 2016
lunedì 18 aprile 2016
Garth Risk Hallberg
Il tentato
omicidio di Samantha Cicciaro, editrice, redattrice e unica inviata
della fanzine Land Of Thousand Dances
è la scintilla che accende la complessa reazione a catena di una
Città in fiamme. New
York City è “una città di fine secolo” dove predatori e
speculatori, artisti e spacciatori, cronisti e investigatori devono
condividere i torbidi conflitti su cui è fondata. Gli elementi
umani, chimici, in ultima analisi, persino storici e politici, alla
base di Città in fiamme
sono più che concreti ed è vero, come scrive Garth Risk Hallbert,
che è “tutto casuale, certo, ma era questo che la città di
regalava e i romanzi no: non quello che ti occorreva per vivere, ma
prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere”.
L’infinitesimale differenza coinvolge una ragnatela di personaggi
le cui azioni si concatenano nello schema degli eventi e avendo il
tradimento e/o la metamorfosi come forma di comunicazione, sono tutti
collegati perché “sembrava che oggi ogni americano avesse il suo
gemello oscuro, la possibilità di una vita vissuta in un modo
diverso”. A quel punto la trama di Città in
fiamme si attorciglia attorno alla famiglia
Hamilton-Sweeney, alla collezione di Mark Rothko, ai contrasti e ai
sotterfugi insiti nella parentela e nella gestione del patrimonio.
Una sorta di Dynasty
prende il sopravvento con una lenta, subdola progressione e la Città
in fiamme rimane vista dall’alto di piani
inarrivabili, mentre, giù, nelle strade succede di tutto. Costruito
con gran dispendio di particolari, caratteri e fuochi d’artificio
tipografici, Città in fiamme
collassa proprio nel finale. Annunciato dalle fanfare di mille
segnali diversi, dallo snodarsi di persone “esageratamente vive”,
è convulso, stratificato, frammentario e inconcludente, con tanto di
colpi di scena a raffica. In quel momento, sì, “la maschera si
trasforma nel volto” e Città in fiamme
si rivela nella sua forma concreta: un’intuizione solida e
pregevole che si è espansa in modo smisurato, gonfiando attorno al
nucleo principale una massa inerte, se non proprio inutile. E’ come
se la Città in fiamme
mancasse lì proprio dove dovrebbe essere. Stiamo parlando di New
York tra il 1976 e il 1977 ed è sfiorata soltanto dalla presenza di
Patti Smith e dell’asse diretto con Lou Reed, poi di sfuggenti
citazioni di Clash, Richard Hell, i Dictators, Iggy (che è sempre
Iggy Pop), e poco altro, nonostante la variopinta ricchezza di Land
Of Thousand Dances. Mancano dei pezzi
importanti. Nei momenti in cui New York, quella New York, dovrebbe
diventare visibile, tangibile ecco che Garth Risk Hallberg sfuma,
corregge, mitiga, confonde. Volendo, la Città
in fiamme c’è tutta, in superficie: il
punk, la droga, il vomito, Taxi Driver,
gli aspetti della gentrification per cui interi quartieri vengono declassificati a zona di degrado urbano e poi fatti risorgere dalle
ceneri speculando sull’edilizia residenziale. Tutto quanto,
soltanto che implode invece di esplodere. Nel suo farraginoso
svolgersi, Città in fiamme
trova sempre il modo di sviare il discorso e il contesto tende a
confondersi in “una metafora incompiuta, un tono in cerca di un
mezzo”, per parafrasare lo stesso Garth Risk Hallberg. Un po’ è
dovuto alla prosopopea (sono un migliaio di pagine, in tutto), un po’
all’eccessiva tendenza alla divagazione, un po’ all'assenza di attrito tra i diversi livelli della narrazione, tra le tante prospettive con cui i personaggi e le loro storie sopravvivono a New York, che resta pur sempre una Città in fiamme, con molto fumo e qualche angolo ancora immerso nel buio.
giovedì 7 aprile 2016
Sam Shepard
Le
nuove Motel Chronicles di Sam Shepard cominciano con una testa
mozzata che collega il Messico all’Afghanistan, il presente al
passato. La testa non può chiedere altro al viandante se non di
essere un buon samaritano e di accompagnarla a un luogo solitario,
verso un lago sulle colline, dove possa trovare “una pace senza
ambizioni, progetti, scopi politici. Una pace pura”. Nel lungo e
laborioso tragitto il Diario di lavorazione raccoglie altri
ricordi, frammenti di incontri, istantanee, Chet Baker, Stanley
Turrentine, Eric Dolphy, l’acconciatura di Woody Guthrie e quella
di Lyle Lovett, nonché, inevitabile, Jack Kerouac. In Peccato
originale Sam Shepard cita la vecchia amica Patti Smith, poi
mette a confronto i paesaggi di Ansel Adams e i volti di Robert
Frank, racconta Howlin’ Wolf e le note di copertina degli album
della Chess, il salvataggio di Fats Domino a New Orleans nei giorni
di Katrina, la morte di Hank Williams e quella di Casey Jones e
ancora Hud il selvaggio di Larry McMurtry e in Giardinaggio
notturno richiama (forse in modo involontario) i R.E.M., ed è
naturale dove tutto è “un suono, un ritmo, oppure qualcos’altro
ancora. Una musica. Certe volte arriva il silenzio assoluto, e allora
vado in visibilio. E’ proprio così che accade: te ne stai lì in
un campo blu e all’improvviso ogni cosa si ferma. Un miracolo. Poi
riprende tutto. A turbinare”. Parafrasando il commento sul menù di
una delle infinite soste lungo questa o quella highway il Diario
di lavorazione “nell’insieme funziona, anche se può sembrare
un’accozzaglia di sapori”. Questa scrittura tersa, mutilata,
precisa, di silenzi e di solitudini, di luci e di ombre, di alcol e
di cenere, di gente che perde la testa (e non soltanto in senso
figurato), americana fino al midollo. Piena di cinema, non soltanto
per i continui riferimenti e le assidue citazioni, ma proprio
nell’inquadratura complessiva, capace di delineare la storia con
pochissime indicazioni, come una sceneggiatura minimalista. Nella
sostanza, con uno sguardo ravvicinato, è più lirica e profonda
perché Diario di lavorazione tende a celebrare e a sublimare
le immagini e le descrizioni, il dentro e il fuori rivelandosi nel
contempo uno dei libri più intimi di Sam Shepard. Il giorni di
viaggio si susseguono senza soluzione di continuità perché “abbiamo
davanti la stessa fosca prospettiva, lo stesso naufragio”, ma la
percezione è alterata dai disastri dell’ecologia americana. la
vita sul confine dove “paura e rispetto” sono diventati sinonimi.
Quando Sam Shepard ammette che “la strada non è un film”, il
disincanto è palpabile e se magari “un barlume di speranza” c’è,
da qualche parte, o c’era, una qualche volta, la convinzione è che
ormai “la speranza è per i politicanti”. Il disorientamento di
una love story consumata e dimenticata, il silenzio disperato di una
stanza d’albergo, le attese vane accanto al telefono e/o alla
bottiglia, dozzine di dialoghi che finiscono in un deserto portano
Sam Shepard a confessare: “Non ho proprio idea di come funzionino
le cose per gli altri. Anzi, se proprio te lo devo dire, non ho idea
di come funzionino per me. Brancolo nel buio”. Non di meno, rimane
inalterata, la sua vocazione a bordeggiare ai margini, a collezionare
i ritratti di un outsider dopo l’altro, a considerare tutta
un’umanità di loser, vagabondi, fuggitivi, disperati. Più che mai
in Diario di lavorazione dove Sam Shepard dichiara, non senza
una certa sincerità: “Sono un fanatico della decadenza. Che mi
affascina il modo in cui le cose si disintegrano, appaiono e
scompaiono. Il modo in cui qualcosa di molto prospero e promettente
diventa triste e scoraggiante. Il modo in cui le persone tengono duro
nel bel mezzo di tanta distruzione, senza pensarci due volte. Il
mondo in cui la gente va avanti perché non sa cos’altro fare”.
Resta la consolazione nell’ascoltare Le canzoni lontane dei
matti o la voce e la chitarra di Guy Clark che ci fa sentire
sulla strada giusta anche in mezzo alla bufera, anche se i bordi
dell’autostrada sono in fiamme perché “solo una cosa è certa,
non si ferma mai nulla” e come dice un vecchio adagio riportato da
Sam Shepard “la nostra dimora è il pellegrinaggio, in una parola
la nostra casa non è da nessuna parte”. Outside is America.